• giovedì , 28 Marzo 2024

Quando Manfredi conquistò Gaeta

E’ giovedì 28 luglio 2016 e in occasione della rassegna letteraria del Golfo di Gaeta, giunta alla sua XXIII edizione, Valerio Massimo Manfredi approda sulle coste del centro Italia, atteso e acclamato da un uditorio sorprendentemente numeroso e assetato di cultura. Manfredi siede elegantemente, dando le spalle alla chiesa della SS. Annunziata, illuminata di luci viola. Lo intervista Riccardo Campino. Quasi impossibile trovare posti a sedere. Nemmeno per un istante lo scrittore dà l’impressione di essere lì per promuovere un libro. È lì per dialogare, per farci amare le straordinarie ricchezze dell’antichità, per rievocare ricordi del passato, per parlarci di sé e delle sue umili origini, dei suoi radicati princìpi. E a fine intervista offre un “modestissimo omaggio” (così lo definisce Manfredi stesso) a tutti i presenti, alla città di Gaeta, leggendo in anteprima mondiale alcune pagine del suo nuovo libro Teutoburgo. Dice di non aver mai fatto una cosa simile prima d’ora, nei suoi occhi si leggono orgoglio e commozione.

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Manfredi è archeologo, prima di essere fabulatore, è un grandissimo conoscitore di storia antica, prima di essere quello scrittore eccezionale che appassiona lettori di tutto il mondo. Risponde così alle domande di Campino.

Oltre alla memoria custodita dai libri di storia, esiste una straordinaria memoria visiva, quella che vive nei monumenti e nelle opere dell’uomo. Vorrei che tu ci aiutassi a capire per quale motivo i terroristi di radice islamica si ostinino in una distruzione sistematica di luoghi e monumenti simbolo della cultura mondiale, quando, peraltro, furono i loro stessi avi ad erigerli.

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Se si pensa a Palmira… si può dire che quel patrimonio è stato annientato.

Non è stato annientato. Sono stati distrutti alcuni elementi (sempre troppi, ripeto). Avevo 21 anni quando ho visto Palmira per la prima volta. Vi assicuro che per me è stata una commozione, uno shock emotivo incredibile. Non avevo mai visto una simile meraviglia. Sono arrivato al tramonto. Queste colonne che si incendiavano come torce, queste palme che venivano percorse dalla brezza e ondeggiavano nel vento come un campo di grano nel vento di maggio… (parla con tono solenne, ndr). Credo che pochi abbiano sofferto come me quando ho visto quelle barbarie. Quei signori (si riferisce ai terroristi, ndr) sanno che noi teniamo molto a quelle memorie, dal momento che sono state scavate e restaurate in gran parte da archeologi tedeschi, francesi, italiani. Loro vogliono colpirci dove fa più male e soprattutto vogliono dimostrare che non si fermano davanti a niente. Così come tagliano la testa a un giovane giornalista o sgozzano un vecchio parroco di 86 anni, distruggono queste memorie che noi riteniamo sacre e mirabili: sono mosse che mirano a scioccare, a terrorizzare, a disarticolare. Non è una storia nuova: già i re assiri facevano rappresentare sulle lapidi scene atroci di prigionieri impalati, scuoiati, di mucchi di peli e testicoli, mani e teste mozzate. E così anche gli Egizi, gli Unni di Attila, i Mongoli. È una vecchia arma, l’unica novità sta nelle menti molto sofisticate che dirigono questa macabra orchestra.

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Torniamo qualche migliaio di anni indietro e torniamo al tuo ultimo libro, Le meraviglie del mondo antico (libro documentatissimo anche sotto l’aspetto delle tecniche costruttive). Mi piacerebbe sapere cosa ti ha portato a scrivere questo libro e quale delle sette meraviglie ha colpito da sempre il tuo immaginario in maniera superiore rispetto agli altri.

Mi prendo la libertà di fare una premessa. La storia ha l’onere della prova. È per questo che i libri storici hanno una bibliografia, le note a piè di pagina e citano le fonti. È una disciplina aperta ventiquattro ore su ventiquattro. E la Verità non è qualcosa di astratto, ma è qualcosa di molto concreto: la Verità è la risultante degli sforzi di tutti questi ricercatori. Ed è anche qualcosa di molto complesso, perché gli eventi devono sedimentare, si devono spegnere i tumulti, le emozioni violente di chi è stato coinvolto. Detto ciò, le sette meraviglie del mondo antico sono un catalogo di opere che non hanno nulla in comune, se non il fatto di essere sorte tutte su un’area vastissima che a grandi linee coincideva con l’impero di Alessandro Magno. Se mi chiedi di sceglierne una, io dico che la Superstar delle sette meraviglie non è la Grande Piramide (già Plinio la descriveva come una montagna di pietre, costata la vita di chissà quanti uomini, per essere la tomba di un uomo solo), ma il Colosso di Rodi. In realtà il Colosso fu la più effimera delle sette meraviglie del mondo antico (durò solo 70 anni) e si dice anche che il suo architetto e scultore, Carete di Lindos, dopo essersi reso conto di aver commesso un gravissimo errore nella progettazione del Colosso, sia stato preso da una tale ambascia che si suicidò.

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Probabilmente non è vero. L’immagine del Colosso che tutti noi abbiamo in mente è un falso: impossibile immaginarlo all’ingresso di un porto a gambe divaricate con una nave che gli passa in mezzo alle gambe. Il colosso sorgeva con tutta probabilità sulla terraferma (lo accertano le notizie forniteci da Plinio) e aveva un’altezza di 34 m, più del doppio del colosso scolpito da Lisippo, uno dei più grandi geni dell’Ellenismo, nonché scultore personale di Alessandro Magno e maestro di Carete. Il Colosso di Rodi fu eretto come ex voto al dio Sole, dopo che Rodi resistette all’assedio di Demetrio Poliorcete, figlio di Antigono Onoftalmo.

La colossale statua, bronzea, aveva al suo interno barre di contenimento e cavi a torsione affinchè mantenesse una certa stabilità quando il bronzo dilatava e contraeva, a causa dei cambiamenti di temperatura. Carete, nella speranza di aumentare la stabilità del colosso in caso di terremoto, riempì di pietre le gambe della statua fin sotto le ginocchia. Fu questo il suo errore: aveva privato il bronzo della sua naturale elasticità e dunque creato un punto di frattura. La statua, infatti, al momento del terremoto, si ruppe sotto le ginocchia. A differenza del Colosso di Rodi, quello di Lisippo, alto 13m (non 34), non crollò, perché poggiava su rulli a bagno d’olio che ogni volta lo facevano tornare in posizione e perché aveva alle sue spalle un pilone frangivento. La Superstar delle sette meraviglie del mondo antico, dunque, è morta di presunzione e anche un po’ di ignoranza. Ma è il frutto della civiltà ellenistica, il frutto di quel momento magico in cui sembrò che qualunque cosa si potesse realizzare.

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