• venerdì , 29 Marzo 2024

Politica e giustizia, nemiche a braccetto nell’indifferenza

1941, Xanadù, West Coast, California:

“Io sono più potente di giudici e politici. Io SONO il pensiero degli Americani!”

In tal modo Charles Foster Kane, interpretato dall’intramontabile Orson Welles, portava a compimento il climax della propria pellicola, ribadendo l’attualissima supremazia del quarto potere sugli altri. Eppure la democrazia, le nostre stesse nazioni, fin dal trattato di Montesquieu, si sono basate sulla divisione dei tre poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario. Col tempo queste tre entità, in origine rappresentate da un monarca assoluto, sono diventate sempre più indipendenti. E, talvolta, persino nemiche. Soprattutto per noi italiani, infatti, i contrasti fra governo e parlamento sono all’ordine del giorno. Più complesso, da sempre, è invece il rapporto fra la politica e la magistratura, a vicenda strumento altrui. Spesso processi e cavilli legali sono stati sfruttati a fini politici (dall’esilio di Cicerone ad opera del tribuno Publio Clodio nel 57 a.C. fino ai moderni processi a Berlusconi) mentre in altre situazioni la politica stessa è stata vittima della ghigliottina della giustizia (e proprio la Rivoluzione Francese, con i suoi rocamboleschi rovesci di fazioni, ne è un clamoroso esempio).

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Purtroppo oggi l’Italiano medio ha perso fiducia in entrambi i poteri, da una parte per una dilagante corruzione, dall’altra a causa della solita eccessiva e proibitiva burocrazia e lentezza delle sentenze.
Nessun fraintendimento: non si vuole invitarvi ad avere cieca fiducia in questi due apparati, tutt’altro; però, siccome in media stat virtus, si cerca di trovare la giusta via di mezzo, la mediocritas del caso, tanto cara ai filosofi greci. Tuttavia i due poteri sono molto più legati di quanto non si creda (o non si voglia credere).
La politica ha bisogno, in alcune circostanze, dell’appoggio, della protezione o dell’eventuale indifferenza della giustizia, teoricamente vincolata a punire ogni illegalità ma praticamente comprata per chiudere un occhio (talvolta due) sulla faccenda.
In mezzo a tutto questo il cittadino osserva, ascolta, annuisce, intuisce, ma ormai l’assuefazione alle notizie di frodi, truffe o qualsivoglia misfatto è tale da rendere passivo il suo atteggiamento, che risponde a questi stimoli con frasi sconsolate, indifferenti e disinteressate, come il più classico “Non c’è nulla da fare. Funziona così.”

Posto che ovviamente il singolo non può fare la vera differenza, ciò non giustifica l’assenza di rabbia o di qualsiasi altra reazione diversa dalla rassegnazione di fronte all’ingiustizia.
014fa456Se è vero che la corruzione è intrinseca nella natura dell’uomo, è vero anche che la tendenza alla giustizia lo è allo stesso modo. Non a caso questo sentimento, maturato per primo da Esiodo, sarebbe divenuto grazie a Platone uno, e forse il più importante, dei capisaldi della filosofia e del pensiero greco: la giustizia intesa come obiettivo di vita, come un potere, il Fato, superiore persino ai canonici dei olimpici. Oggi diremmo superiore alla politica. Per questo il terzo potere è superiore al secondo: rappresenta un valore universale e universalmente condiviso, ed è poi in grado di condannare i politici se non ottemperanti alle leggi emanate dalla loro stessa legislazione ma custodite e difese dalla magistratura. In un certo senso la legge è stata creata appositamente per esercitare un controllo esterno sugli affari interni allo Stato, sebbene in seguito questo utopico fine iniziale abbia dovuto confrontarsi con l’avidità, il timore, la corruzione e l’imperfezione, tutte caratteristiche proprie dell’uomo.

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Lo sconcerto passivo ed indifferente del singolo come dell’opinione pubblica ha però fortunatamente un suo limite: fino ad un certo punto gli errori, le truffe, le offese e le ingiustizie vengono tollerate ed inserite nella quotidianità; tuttavia esiste una soglia, etica o quantitativa, che non può e non deve assolutamente essere superata, poiché oltre sopraggiunge l’istinto ribelle, rivoluzionario, arrabbiato e talvolta violento della folla, della “marmaglia” di Manzoni, incontrollabile, imprevedibile e occasionale, come un “fiume in piena” dove “il vortice attrae lo spettatore”.
In questo caso lo sconcerto si trasforma, finalmente e talvolta giustamente, in rabbia: eppure non a caso le grandi rivolte si sono consumate nel passato, poiché tra l’indifferenza generale e la nostra situazione di benessere, avendo quindi solamente tutto da perderci e poco o nulla da guadagnarci, la rivolta, soprattutto se intesa come violenta e non pacifica sulle orme di Gandhi e Martin Luther King, ha perso sostanza, sostenitori e significato.
Francis Scott Fitzgerald rese bene questa idea al termine di uno dei suoi romanzi: “Così” – mentalmente e inconsciamente “continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti, senza sosta, nel passato”ma invece lo abbiamo già alle spalle, proiettati verso un futuro corrotto ed indifferente, dove “se c’è speranza, questa risiede nei prolet”.

 

 

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