• martedì , 23 Aprile 2024

Il Salice a Bard, tra Erwitt e Chagall

Al confine tra Francia e Italia, sulla cima di un promontorio roccioso a 380 m di altitudine, in posizione strategica, a picco sulla Dora Baltea, sorge l’inexpugnabile oppidum, le vilain castel, oggi noto come il forte di Bard. Una storia millenaria quella del forte, che ha inizio nell’ XI secolo e trova il suo splendore quando il 14 maggio 1800 l’ Armée de réserve di Napoleone mette sotto assedio l’esercito austro-piemontese, arroccato sull’altura che sovrasta gola della Dora. Successivamente, raso al suolo per ordine dello stesso Napoleone, fu ricostruito negli anni trenta dell’Ottocento su progetto di Francesco Olivero. Oggi ospita esposizioni di fotografia e di arte, tra cui le mostre di Elliott Erwitt- Retrospective e Marc Chagall- La vie.

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La redazione del Salice, nel suo percorso sulle varie forme di comunicazione, ha visitato entrambe le mostre. L’occhio critico del giornalista, ma non solo. Anche la prospettiva di chi sa cogliere di un racconto le varie sfumature, i diversi punti di vista. Il colore di Chagall ed il bianco e nero di tante foto di Erwitt. Le chiavi di lettura attraverso cui decifrare la molteplice realtà e porgerla allo spettatore. Un vero e proprio pellegrinaggio, per certi versi, alla radice del comunicare con la sincerità che deve essere abituale per un vero giornalista.

Elliott Erwitt è uno dei più grandi fotografi dei nostri tempi (oggi ha 86 anni), non un fotoreporter, ma un fotografo di impressioni. Tra comicità e tragicità si gioca la fotografia di Erwitt, che critica con un sorriso amaro e un atteggiamento alquanto cinico le mancanze della società contemporanea, mettendone in evidenza gli aspetti più ironici. “Uno dei risultati più importanti che puoi raggiungere, è far ridere la gente. Se poi riesci, come ha fatto Chaplin, ad alternare il riso con il pianto, hai ottenuto la conquista più importante in assoluto. Non miro necessariamente a tanto, ma riconosco che si tratta del traguardo supremo” ammette Erwitt in persona.

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Fotografia per Erwitt significa arte di saper cogliere l’attimo, immortalare una situazione e catturare quella scintilla che dà significato alla scena. Una foto è un “lampo” che “sembra uscire fuori dal nulla”, è uno “squarcio nelle nuvole” è la “visione di qualcosa di meraviglioso” che è capace di cambiare lo stato d’animo di chi la guarda e di smuoverlo dall’ indifferenza. Bisogna avere ben chiaro in testa ciò che si vuole comunicare e poi aspettare con pazienza che tutti gli elementi della scena siano al posto giusto al di là dell’obiettivo prima di realizzare lo scatto perfetto. Ma non si tratta solo di pazienza. L’atteggiamento del fotografo, che dovrà spostarsi in continuazione e cambiare spesso punto di osservazione, oppure contribuirà in maniera attiva alla realizzazione della situazione che vuole che si verifichi, è la discriminante tra un buono scatto e un’ottima fotografia.

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Il metodo del fotografo statunitense può essere riassunto in sette regole d’oro. Innanzitutto, fotografare divertendosi: per far cogliere l’umorismo di una scena, dovrà essere il fotografo per primo a divertirsi per quello che sta succedendo. Sul mai risolto dilemma che vede alcuni preferire la tecnica compositiva e altri il messaggio comunicato, Erwitt si esprime dicendo che avere un occhio di riguardo circa la composizione fotografica è auspicabile solo quando ciò non va a discapito dell’idea che si vuole trasmettere. Una forte antipatia per l’arte su commissione, troppo limitante, è giustificata con una strenua difesa del diritto di libertà espressiva: il fotografo statunitense non indugia a sostenere che le sue foto amatoriali siano migliori di quelle professionistiche. Inoltre è necessario dedicare del tempo a lunghe e rilassanti sessioni fotografiche, senza il timore di coltivare una passione con la dovuta tranquillità. Erwitt odia anche i progetti fotografici, perché vincolanti: bisogna scattare ciò che si vuole e quando si vuole. L’osservazione dei dettagli più minuziosi è la chiave per realizzare un buono scatto. L’ultimo consiglio di Erwitt è un appello all’umiltà e alla voglia di migliorarsi sempre. Gran parte della sua produzione è in bianco e nero, perché “il bianco e nero esprime la sintesi di ciò che vedi”.

La mostra di Marc Chagall (1887-1985) espone il genio del pittore, un maestro nell’uso del colore, attraverso dipinti, acquerelli, gouaches, litografie, ceramiche e tappezzerie, per un totale di 266 opere. Sarebbe impossibile inserire il pittore in una precisa categoria dell’arte contemporanea, dal momento che, pur essendosi avvicinato a movimenti come il cubismo e il fauvismo, rimase sempre ai margini di essi. Inoltre, la semplicità delle forme dei suoi dipinti, lo ricollega al primitivismo della pittura russa del primo Novecento.

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I suoi dipinti, oltre ad essere ricchi di riferimenti al periodo dell’infanzia a Vitebsk e la sua vita a Parigi, narrano numerosi episodi biblici che rispecchiano la sua cultura ebraica. Argomento centrale della sua pittura sono anche gli amanti, la musica, il circo e gli animali parlanti, protagonisti delle favole di La Fontaine. Nelle opere di Chagall il colore acquisisce un’importanza fondamentale. Non solo i colori vivaci sono utilizzati per comunicare felicità e ottimismo, ma, con il tempo, il colore supera i contorni dei corpi, si espande sulla tela, fino a diventare elemento libero ed indipendente dalla forma. Il blu, colore del sogno e dell’immaginazione, è dominante nell’opera principale “La vie”, dove violinisti, acrobati e saltimbanchi accompagnano l’immagine degli innamorati fluttuanti nel cielo. Non manca il rimando a Parigi, la città che rappresenta l’inizio della sua nuova vita come uomo e come artista. Le atmosfere oniriche e surreali, insieme alla tenerezza dei personaggi che popolano le sue opere, hanno reso l’arte di Chagall un ponte tra la pittura e la poesia.

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