• martedì , 19 Marzo 2024

The Post secondo Il Salice

Esiste un limite alla libertà di stampa? Torna sul grande schermo l’eterna lotta tra censura e diritto a pubblicare, il caso Charlie Hebdo, la scelta tra ragion di stato ed informazione.

Questa volta prende il titolo di The Post e suggerisce che “per affermare il diritto di pubblicare bisogna pubblicare”. Una posizione netta che trova poco contrasto nel dipanarsi nella storia, la quale tra l’altro alla fine premia la scelta degli arditi giornalisti. Che si scriva per i governati e non per i governanti è chiaro, ma troppo spesso la linea di confine tra la stampa e la classe dirigente è labile. I giornalisti, si dice nel film, non sono obiettivi. Non possono esserlo perché mancano della freddezza che solo la distanza cronologica dallo svolgersi degli eventi permette. Devono optare per un taglio. E in modo più o meno implicito prendere una posizione. Possono essere influenzati, abbagliati, manipolati. Esattamente come viene rivelato nel corso del girato.


Meryl Streep. Tom Hanks. Steven Spielberg. La vincitrice di 3 Premi Oscar, 2 Emmy Awards, 9 Golden Globes e di cui da tempo si è perso il conto delle candidature, con l’Andrew Beckett di Philadelphia, il Forrest Gump dell’omonimo film, il John di Salvate il soldato Ryan. Sotto la guida uno dei cineasti più importanti e influenti del grande schermo. Quando si ha la rara opportunità di miscelare artisti di tale livello, si ha la certezza di ottenere un prodotto grandioso. E questo è proprio ciò che hanno fatto: The Post è lezione di storia, giornalismo e cinema.


Diretto e pensato in velocità da Spielberg subito dopo l’esito delle elezioni, appoggiato da Streep e Hanks che sono saltati su quel treno in corsa, il film descrive la decisione del Washington Post e della sua editrice di pubblicare “The McNamara Papers”. Ovviamente arricchita da pennellate invisibili dentro alla tela, incessanti dettagli e stimoli sulla realtà storica, l’emancipazione della donna, il rapporto tra lo Stato e il “quarto potere”, il significato di libertà di stampa. In un grado di finzione tale da far annegare lo spettatore nella realtà narrata ancor prima che questo si accorga di esservi stato immerso. I due premiati attori hanno quindi prestato il volto rispettivamente a Katharine Graham, editrice del Washington Post, e Ben Bradlee, direttore del quotidiano. E se l’attore attira lo spettatore attraverso l’immedesimazione nella parte, Maryl Streep ha perfettamente reso il fragile animo della Graham scosso dalle difficoltà economiche a cui far fronte, intimorito dal peso della responsabilità e sfiduciato dalla consapevolezza di non essere mai reputata all’altezza. Sicuramente un’ispirazione per molte donne, soprattutto in un periodo in cui si scrive e scrive dei vari scandali Weinstein. La sua storia è una che doveva essere raccontata.

E Spielberg ha saputo forse cogliere uno dei momenti migliori con un’idea(lismo) a fare da fondamento a una storia fatta di dialoghi, aforismi e non detti. Recitata da un manipolo di attori eccezionali; realizzata chirurgicamente e capace di affrontare i dibattiti civili contemporanei. Tra cui la libertà di stampa. “I servizi trasmessi in tv e gli articoli pubblicati sulla maggior parte dei giornali sono quasi tutti di stampo ideologico. I cittadini sanno poco o niente di quello che accade.” diceva Anna Politkovskaja pensando alla Russia. Spielberg ribatte ora “il Presidente degli Stati Uniti è pronto a etichettare come fake news tutto ciò che non lo aggrada”. Non a caso il “cattivo” della storia è, strano a dirsi per un film hollywoodiano, lo stra-potere della Casa Bianca. Pur mostrando un altro presidente, pur raccontando un altro decennio, il bersaglio è palese. Inoltre sia la Graham che Bradlee si riconoscono pupazzi in mano di presidenti che loro reputavano amici. Un attacco a quella forma più subdola e democratica di censura che ci può ancora essere in un governo popolare.

Eppure la retorica del regista, per quanto didattica, non risulta mai pedante (e considerando la lentezza del film a cui non siamo più abituati si dimostra la maestria di Spielberg). Dopo la prima (ed unica) scena d’azione che introduce la guerra in Vietnam, documentata dall’analista Daniel Ellsberg per conto del segretario della Difesa Robert McNamara, c’è una breve ma emblematica scena sul volo di ritorno verso l’America. Ellsberg rivela a McNamara e al presidente Lyndon Johnson che, a suo parere, la situazione bellica in Vietnam è rimasta sostanzialmente invariata dall’inizio della guerra. Tuttavia, intervistato in seguito da numerosi giornalisti, McNamara mente dicendo che erano stati compiuti numerosi progressi. Mentre poi i documenti segreti pubblicati sotto Nixon rivelarono i reali motivi della guerra del Vietnam, definiti dallo stesso McNaughton, come al 70% evitare una sconfitta umiliante per gli USA. Ebbene sì, The Post è un film assolutamente schierato, un film che prende una posizione politica chiara e netta. Ed è proprio tale arroganza, paradossalmente, a dare valore alla pellicola. E a renderla intrigantemente stimolante.

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