“Chi voglio essere?” Uno dei cinque grandi interrogativi del Salone del Libro 2018 (ma non solo), a cui il filosofo Carlo Sini ha cercato di dare una risposta. Non serve riflettere sul proprio futuro se prima non si ha chiaro il presente: bisogna capire chi siamo. “Conosci te stesso”: la sentenza tramandata dal frontone di Delfi, l’interrogativo apparentemente elementare che inchioda l’esistenza di ogni uomo, una domanda senza risposta, come dimostra Edipo, convinto di essere un re di Tebe saggio e giusto ma rivelatosi un parricida incestuoso.
Ci sentivamo relativamente sicuri della nostra identità, finché Nietzsche e Freud ci hanno educato alla scuola del sospetto e hanno insinuato dentro di noi un dubbio che ci attanaglia. Oggi è tutt’altro che facile trovare una risposta. Viviamo nel tempo della dispersione, bombardati da notizie, inseguiti da offerte pubblicitarie (preferibilmente all’ora di cena), aperti a migliaia di opportunità. Appare come un locus amoenus. L’età dell’oro, l’età del progresso. Eppure siamo disorientati, dispersi e infelici. Non ci sentiamo appartenenti a nulla. Palline di un grande flipper di cui non capiamo le regole e che sembra non avere uscita. Manca un senso unitario della cultura – gli stessi stand del Salone sono il regno delle dispersività – e non esiste più un sapere comune.
Tuttavia, si sono moltiplicate considerevolmente le risorse e le opportunità. Il punto di non ritorno è stato l’arrivo della modernità. Prima uno stato di dignitosa povertà, “ben diversa dalla miseria”, puntualizza Sini, poi un mondo di ricchezza – dopo l’epoca delle rivoluzioni industriali -, in cui grazie al progresso la vita del proletario medio era diventata migliore di quelle dei signori di qualche secolo prima. Bisogna però anche considerare il rovescio della medaglia e abbandonare per un attimo il pessimismo che contraddistingue i nostri anni. Talvolta dispersione significa vita: il Big Bang è l’inizio, l’origine di tutto, la dispersione della vita dell’Universo in miliardi di vite particolari. E la sua assenza è morte: l’estinguersi di alcune specie è infatti una minaccia per il pianeta. Adam Smith sostiene che la ricchezza delle nazioni sta proprio nella dispersione, del lavoro e delle forme imprenditoriali e sociali.
In una società complessa come la nostra – culmine di un percorso durato decenni – si è però schiavi del lavoro e del mercato, imprigionati tra bilanci e tasse. Si è persa la concezione del lavoro come applicazione dell’energia per cambiare positivamente la realtà, è sparita ogni accezione etica. Oggi ha un valore essenzialmente pratico: si commercia in nome dell’utile, non di ideali condivisi.
Il modus vivendi odierno ricorda molto la “Favola delle api” di Bernard de Mandeville: un alveare apparentemente felice in cui vive una società di api ben organizzata e civilizzata produce tutto ciò che serve alla prosperità della comunità, ma di cui gode solo una parte dell’alveare.
Allo stesso modo tra gli uomini sono comuni disparità sociali e dislivelli di ricchezza. Per questo in una società “complessa” è necessario accettare “devianze” come miseria o corruzione, con le parole di Mandeville stesso: “Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”. E’ impensabile però auspicare un ritorno al 1100, o anche solo al 1900. E bisogna dunque imparare a convivere con ciò che siamo diventati.
Oggi sono i “settori” a governare il mondo. Nulla è più globale – se non il commercio -, tutto è sempre più specializzato, dalle università al lavoro. Ecco dunque che le opportunità e le scelte si moltiplicano, e il sapere si disgrega. Non per nulla sono gli anni della “desertificazione” delle culture locali.
E’ però curioso notare come questa dispersione causi un analogo fenomeno di organicità. Il mercato è unico, ed è il portafoglio dei potenti che decide cosa compriamo e cosa mangiamo.
Si cerca sempre più di imitare il modello anglofono tendenzialmente applicato a tutti i campi, soprattutto alla scuola.
La quantità di opinioni e di canali illude che l’informazione sia salva da ciò. Eppure in questo caso la molteplicità è annullamento. Tra milioni di pareri, si contano sulle dita di una mano quelle dotate di oggettività e profondità. Manca una visione unitaria, si privilegiano gli interessi dei singoli – in nome della libertà di espressione e di parola e della democrazia. Come ai tempi dei sofisti “tot capitae, tot sententiae“. Ma allo stesso tempo, essendo tutto omologato, nessuno osa.
E in questa indifferenza generale è difficile capire chi si è e chi si vuole essere.
E qui entra in gioco l’unicità dell’essere umano: la libertà. “Diventa ciò che sei”, parafrasando Nietzsche. Combatti l’omologazione e la dispersione, mettendo a frutto le opportunità e le scelte che si possono fare. Perché solo ognuno di noi può scoprire chi è, e chi vuole diventare. Per questo a una società che chiede “Di cosa ti occupi?” la risposta è “Di diventare umano”.
Questo è il racconto della nostra giornata al Salone nel video di Matteo Masoomi Lari