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La classe operaia va in paradiso: quando il passato diventa futuro

22 novembre 2017. I dipendenti di Amazon denunciano polsi infiammati, attacchi di panico, turni di notte per un mese non stop: il sistema lo chiama Black Friday, la classe lavoratrice preferisce il termine “condizione disumana“.

Le catene di produzione di Amazon

I tempi cambiano, la sostanza no: è questo il messaggio de “La Classe Operaia va in Paradiso“, opera portata in scena da Claudio Longhi al Teatro Carignano di Torino dal 6 al 18 novembre. Lo scheletro è l’omonimo film del 1971, diretto da Elio Petri: la semplice storia di Lulù Massa, operaio milanese e stakanovista che ricorda Charlie Chaplin in “Tempi Moderni”, che riesce a permettersi l’automobile e altri beni di consumo grazie alla forza della propria produttività.

La locandina del film uscito nelle sale cinematografiche nel 1971

Lino Guanciale, celebre attore di teatro e di fiction televisive, interpreta magistralmente il ruolo che fu di Gian Maria Volontè. Il suo Lulù è troppo cupo, troppo feroce, troppo realista: la troppa attenzione al proprio lavoro e la volontà di apparire come “uomo-macchina” migliore sul mercato e modello per i suoi colleghi lo portano a una totale alienazione. La stessa che non gli permette di avere amici. Unica eccezione: il vecchio Militina. E’ una figura che ricorda i greci Tiresia e Cassandra, capaci di andare oltre la realtà che vivono, di vedere il presente e il futuro e di coglierne l’utopia. E per questo chiuso in un manicomio.

Anche le relazioni sentimentali sono segnate irreversibilmente: due donne, Lidia e Adalgisa. L’una condivide con lui un rapporto familiare che non esiste, fatto di insulti e parolacce come unica forma di dialogo, l’altra, innocente ragazza di campagna, scoordinata nei movimenti e stonata nella voce, ne diventa un’amante di cui si mostra disinteressato. Sono unite dalla profonda voglia di emanciparsi: cercano un modo per stare al mondo, lontane dall’ombra di un uomo da cui sembrano dipendere. Ma non rimane altro che un’illusione: un turbinio di emozioni che indica che il riscatto sociale per loro non arriverà mai.

Lino Guanciale e Diana Manea in scena nei panni di Lulù e Lidia

Un racconto che non avrebbe senso se non accompagnato dalla musica. Simone Tangolo crea una rottura dell’illusione scenica, spiegando attraverso le canzoni ironiche del cantautore torinese Fausto Amodei le vicende e l’intero capitalismo. E’invece onnipresente sulla scena Filippo Zattini, polistrumentista che ricrea le atmosfere del film con le musiche originali di Ennio Morricone. Con una piccola aggiunta: la reinterpretazione dell’Inverno di Vivaldi, su suggerimento del regista, perchè ha in sé una ricorsività musicale che ricorda l’ossessione di Lulù e dei suoi compagni per il lavoro.

Simone Tangolo nel ruolo del cantastorie

 

All’uscita nelle sale cinematografiche, il film mise con fatica d’accordo gli opposti, anche se qualcuno non mancò addirittura di invocare il rogo di tutte le copie della pellicola. Nato per rappresentare non le ragioni di questa o quella parte, ma il mondo proprio della classe operaia – come specificò più volte il regista – il film innescò un duro dibattito all’interno della sinistra italiana, mettendone radicalmente in discussione, nel periodo turbolento dei primi anni di piombo, l’identità ideologica e l’effettiva capacità di rappresentanza del proletariato. Ed è proprio questo uno dei punti cardine della rappresentazione. Attraverso i personaggi di Petri e dello sceneggiatore Pirro e di diversi spettatori, si scopre un’attenta lettura del periodo storico che fa da contesto, ma anche da protagonista all’intera sceneggiatura.

Il Novecento. Un periodo di crisi, di transizione tra vecchi valori e un nuovo avvenire che spesso non si voleva accettare. Proprio come accade oggi. Il lavoro sembra non esserci, ma in realtà ha ancora tanto da raccontare. Secondo Lino Guanciale, intervistato dal Salice in occasione dello spettacolo di venerdì 16, “ci sono inquietanti similitudini date dal fatto che quella civiltà dei consumi iperaccelerati entro la quale noi viviamo si è sviluppata all’altezza dei primi anni ’70, siamo ancora dentro quel brodo che si cominciava a cucinare allora. E’ vero che nello spettacolo si usano delle parole “fuori corso”, come il termine operaio, perchè ha fatto comodo che diventassero tali, in realtà oggi la classe operaia è molto più estesa perchè chiunque sia sfruttato rientra dentro questo nome. Faccio fatica a quantificare: circa il 70-80% delle persone si trovano in questa condizione oggi. A differenza di allora siamo soli: qualsiasi problema ci fosse al lavoro c’erano sindacati, studenti, diverse forme di aggregazione. Era un’età caotica, toccava informarsi da sé, però non si era soli.” Anche Simone Tangoli è convinto che “dobbiamo riconoscerci fragili, con la consapevolezza di essere continuamente sfruttati. E’ vero che le condizioni sono migliorate, ma vi è una ciclicità nello sfruttamento. Non dobbiamo dunque accettare tutto per come ci viene presentato, capire che tutto è modificabile“.

Una scena del film

Uno spettacolo che permette di riflettere sul nostro tempo. Un mondo in cui l’individuo prevale sul bene comune, dove prevaricare un altro per raggiungere l’ultimo capriccio è diventato all’ordine del giorno. Vi è però un messaggio forte di umanità. E’ presente nel finale, in cui i compagni di Lulù riescono a farlo riassumere nella catena di montaggio, decidendo di lottare con e non contro di lui. Si legge nelle parole dei due attori che sostengono che “bisogna solo non pensare al domani come qualcosa che deve arrivare, ma su cui lavorare. Come? Dialogando, creando aggregazione“. Nei loro occhi, che si riflettono in quelli degli stessi ragazzi a cui restituiscono in ogni replica la speranza e la voglia di sognare un futuro migliore.

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