• venerdì , 29 Marzo 2024

Stefano Corbetta e l’importanza del silenzio

Stefano Corbetta, nato a Milano nel 1970, ha scoperto la scrittura in tempi abbastanza recenti dopo essersi cimentato in altri campi quali il teatro e la musica. Ha pubblicato 2 romanzi: “Le coccinelle non hanno paura”, e il nuovissimo “Sonno bianco“, pubblicato da Hacca e tra i candidati per il premio Strega. Stefano propone nelle scuole un’esperienza con la quale avvicinarsi alla scrittura partendo da immagini, perché forse la scrittura nasce prima di foglio e penna, e così ha fatto anche nel nostro istituto, dove abbiamo avuto il piacere di porgli qualche domanda:

Quando noi leggiamo un libro spesso ignoriamo tutti i passaggi che hanno portato alla sua pubblicazione, potresti raccontarci cosa c’è dietro?

Quando voi acquistate un libro o leggete un romanzo, vedete un prodotto finale, ma di fatto quello che avete in mano è il risultato di tantissimi passaggi: non solo perché per scrivere una storia o romanzo ci vogliono mesi o anni, ma anche perché dal momento in cui la storia viene completata ci sono innumerevoli fasi di revisione, editing e correzione bozze che permettono al libro di essere poi pubblicato ed arrivare in libreria nella forma che noi siamo normalmente abituati ad avere tra le mani. Cominciando dall’inizio c’è un’idea intorno alla quale lo scrittore immagina una storia, la costruisce e si documenta (perché magari nel suo racconto c’è un elemento di cui lo scrittore non è a conoscenza o che necessita approfondimento). Questa fase di documentazione e studio può durare anche mesi, nel caso di “Sonno bianco”, il mio ultimo libro, è durata addirittura quasi un anno. Poi si incomincia a scrivere, si parte con una prima revisione che poi, però, necessita di essere lasciata da parte per un po’, senza continuare a riscriverla o a leggerla, ci vuole del tempo per prendere distanza. Successivamente bisogna riguardarla, le revisioni di un romanzo possono essere anche tre, quattro, o magari addirittura una decina, dipende dalla complessità del libro; quindi possono passare anche due o tre anni per scrivere un romanzo. Quando questa fase finisce, si dà il libro all’ editore, il quale lavora su questo, insieme all’ autore, per sistemare ciò che eventualmente non è chiaro o va detto in un modo diverso. Questo processo può durare un mese o anche sei. Poi si passa il testo al correttore di bozze: cioè quella persona che, in casa editrice, controlla che non ci siano errori o refusi. A quel punto il libro va in stampa, dalla stampa c’è la distribuzione e con questa arriva in libreria. Quindi, dietro al libro che noi leggiamo e ci troviamo tra le mani, c’è un processo veramente molto lungo, nel quale la stesura del testo occupa solo una piccola, se pur importantissima, parte.

Che cosa ti ha fatto appassionare al mondo della scrittura?

Sicuramente si scrive perché sono state fatte letture importanti, abbiamo a disposizione alcuni romanzi di un’inestimabile bellezza. Proprio da questi può scaturire il desiderio o la necessità di scrivere, a propria volta. Nel mio caso sicuramente le letture che ho fatto nel corso degli anni mi hanno portato poi a pensare di poter raccontare delle storie, anche con un senso di gratitudine verso i grandi classici e alcuni autori contemporanei di cui leggo normalmente I romanzi. Quindi direi che, per me, come spesso accade, c’è un percorso di lettore, prima di scrittore. Non necessariamente la lettura porta alla scrittura, però non credo sia possibile scrivere senza aver letto tanto.

Quali sono invece i tuoi libri e i tuoi autori preferiti?

Se pensiamo ai classici sicuramente lo scrittore che mi ha segnato di più è stato Dostoevskij. Molto importati sono anche stati Albert Camus, Italo Svevo e Pavese; per i contemporanei invece, mi piacciono molto autori come Paul Auster, Hemingway e Carver. Come libri sicuramente “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij , “I demoni” e “Il grande Gatsby”.

Che cos’è per te la scrittura?

La scrittura è una forma di conoscenza: dal momento in cui si prende in mano una penna tutto ciò che verrà fuori sarà qualcosa che in parte si può controllare, ma contemporaneamente uscirà fuori qualcosa di cui inizialmente non si aveva idea, una cosa che ha a che fare con noi in maniera molto profonda: qualcosa che ci svela. Scrivere vuol dire essere di fronte ad una pagina bianca, non avere idea di cosa ne possa uscire, e, scrivendo, far emergere involontariamente qualcosa che prima non ci si aspettava, qualcosa che forse non sarà compreso subito, ma dopo una settimana o magari sei mesi, ma una parte di noi stessi viene per forza fuori. Quando si scrive bisogna essere a conoscenza di questo, perché chi decide di iniziare a farlo non sempre ha voglia di scoprire qualcosa di sé fino ad allora oscurato. Scrivere serve anche per capire. ”se non te la racconto, come faccio a capirla?”,  si diceva in uno dei miei Cult Movie preferiti : ”Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Mentre si parla di qualcosa è più facile comprenderla, è un meccanismo consolidato: raccontando comprendiamo meglio. Il foglio, come il silenzio o una tela bianca, spaventa, ma di fronte a questi si capiscono un sacco di cose; è molto più facile sentirsi nudi di fronte al silenzio piuttosto che a quando si parla. Infatti, per rompere un silenzio imbarazzante, si tende spesso a dire cose inutili o goffe pur di riempire lo spazio vuoto che, come una pagina bianca o una tela, non bisogna temere. Anche se è una cosa a cui non siamo tanto abituati, bisogna prendere confidenza con il silenzio, che è rivelatore e ci parla, però bisogna ascoltarlo.

Anche durante la presentazione hai accennato al silenzio, quanto è importante?

Il silenzio è importantissimo: si scrive in silenzio, è difficilissimo scrivere se c’è della musica in sottofondo o ci sono altre persone che parlano. Il silenzio è una dimensione fondamentale per chi scrive perché è dentro a questo che le storie prendono forma ed che ha spazio la voce che dobbiamo trovare per poter scrivere un racconto. Ci vuole del silenzio per pensare ad una storia e costruirla, inoltre è fondamentale nell’atto creativo.

Cosa consiglieresti ai giovani intraprendenti della scrittura?

Di scrivere. Scrivere per raccontare piccoli fatti, per descrivere immagini o stati d’animo, farlo partendo magari da una cosa apparentemente banale, o senza significato, perché la scrittura ha il potere di rivelare tantissimo e nell’ atto di farlo c’è una grande forza creativa che è in grado di svelare anche l’inaspettato. Quindi consiglierei di scrivere nello stesso modo in cui uno si allenerebbe se dovesse andare a fare la maratona. 

Esistono forse, come nello sport, degli allenamenti precisi per gli scrittori ?

Sì: mettersi in una stanza e descrivere quello che vedi, sedersi su una panchina e raccontare quello che hai attorno, copiare delle parti di romanzo che ti sembrano particolarmente interessanti, leggere ad alta voce. Tutto questo sforzandosi di non usare le parole in modo generico ma di sceglierle in maniera molto precisa.

Quanto tempo dedichi alla scrittura al giorno?

Scrivo tutti giorni, più o meno un’ora quando non sto facendo un romanzo e quattro o cinque quando invece sto scrivendo un libro. Facendo un altro lavoro, mi dedico alla scrittura soprattutto di sera o di notte.

Quand’ è stata la prima volta in cui ti sei buttato nel mondo della scrittura?

Ho iniziato a scrivere per la necessità di dare voce ad un’ immagine. Io venivo dalla musica, suonavo jazz, dopo alcune esperienze mi sono ritrovato con un’immagine impressa in mente, e l’unico modo per capire cosa fosse e liberarmene era incominciare a scriverci sopra. Così ho scoperto che sotto quell’ immagine c’era una storia. Una storia che non conoscevo, non avevo capito, ma che scrivendo si è sciolta. Il rapporto tra immagini e parole è diretto e stretto; noi siamo continuamente a contatto con immagini, ora con il telefono è semplicissimo, ma il modo in cui le guardiamo può essere di vario tipo, e il nostro grado di attenzione ci porta a capire diverse cose.

Cosa ti ha ispirato per il tuo ultimo romanzo “Sonno Bianco”?

L’idea è partita quando, scrivendo, come faccio tutti i giorni, mi sono ritrovato di fronte ad un immagine precisa: quella di una stanza bianca dentro la quale c’erano due gemelle. Da lì ho fatto delle ricerche e ho messo giù una storia in cui una delle due subisce un’incidente e l’altra racconta di un rapporto spezzato e del senso di colpa che a volte nella vita ci troviamo a dover affrontare.

Anche nel tuo primo libro, “Le coccinelle non hanno paura”, ti sei ispirato da un’ immagine?

Sì, avevo in mente l’immagine di un uomo che camminava verso un santuario, in Toscana, e da lì ho incominciato a capire chi fosse quell’uomo e in questo modo sono riuscito, anche documentandomi, a capire che cosa potesse emergere da quella storia.

 Che tipo di immagini sono?

La maggior parte delle volte sono immagini mentali, spesso capita che nella mia mente sorga qualcosa, che può anche non avere nessuna connessione con la realtà. Le immagini però, come le fotografie, svelano sempre qualcosa che ci era sfuggito, qualcosa che può essere soggettivo da persona a persona e da cui poi si parte a raccontare.

Come facciamo noi a far uscire queste immagini catturate nel nostro inconscio?

Bisogna lasciar loro spazio, stare in silenzio. E’ difficile che un’immagine possa emergere se non le diamo spazio. Se una persona non si prende mai del tempo per stare in silenzio ed ascoltarsi è improbabile che le immagini emergano, è più facile che la realtà continuamente ci solleciti e ci metta dentro delle informazioni; ma ad un certo punto ci vuole un momento in cui lasciare che quello che abbiamo vissuto, visto, sentito e ascoltato esca, e per poterlo fare bisogna farsi da parte, mettersi in ascolto ed avere la pazienza di capire se c’è qualche cosa che la nostra immaginazione ci può suggerire.

Hai altri romanzi in cantiere?

Sì, ho scritto già un terzo romanzo, però sto cercando di capire come renderlo più interessante, ci sto lavorando, sempre partendo da un’immagine, molto ben definita. Ci sarà ancora del lavoro da fare perché è vero che un’immagine parla, è vero che una storia si può svelare nel silenzio ma c’è anche un gran lavoro di analisi, scelta di equilibri e relazioni tra personaggi che sono fondamentali ai fini del racconto. l’immagine è sempre un input, una cosa da qui partiamo a raccontare, ma poi non è sufficiente perché non ci spiega tutto: è solamente la scintilla, ma poi ci vuole della legna e del soffiare sulla brace perché prenda vita.

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