• giovedì , 28 Marzo 2024

Non parla per frasi ma per versi

Il grande blu, unico, immobile e mobile, Distruttore e Creatore di specie, di genti, di sogni. Della sua nascita se ne potrebbe parlare per anni e mai si arriverebbe ad una conclusione. Della sua morte è impossibile anche soltanto immaginare. Si assorbe e si costringe tanto da non accorgersene. Si rigenera con le lacrime del cielo. Molti hanno provato ad imbrigliarlo, a catturarlo, a coercirlo ed è inutile ricordare che nessuno vi è mai riuscito. Forse in un’unica occasione: tanti anni or sono una popolazione scappava dalla fame e dal dolore e allora chiese aiuto al loro Dio, il quale riuscì ad aprire e a chiudere le acque, comandando ciò che comandabile non è.

Interessante constatare come quelle stesse caratteristiche che si affibbiano alla divinità si possano facilmente estendere all’immensa distesa azzurra in egual misura. Dio é Creatore e in tal figura ci viene proposto, da Torquato Tasso inizialmente e da Foscolo poi, il liquido amniotico che con i suoi cullanti movimenti rinforza le speranze di vita delle creature e consegna alla natura la possibilità di compiere il suo corso di rigenerazione.

Ma al divino, fin dai tempi del più giovane Dioniso, si associano le caratteristiche più duali e complementari e quindi l’oceano diventa Distruttore, di uomini e di speranze. De Amicis nel lontano 1882 decide di dedicargli una poesia, toccante, scritta da occhi che le onde sono stati in grado di amare (emozione a dir poco difficile da provare) ma che hanno visto la catastrofica potenza del divino e che concludono in ultimo verso apostrofandolo con le parole “O sterminato cimitero azzurrο.” e poi più alcunché.

“Sterminato” perché i colori si miscelano, formano un’ intrinseca unione, copulano in un abbraccio finché non c’è bisogno del sole calante per capire dove inizia il cielo e dove finisce il ponto, quale blu è pronto ad accettare l’arancione e quale blu é ormai deciso ad abbandonarlo. Ci vorrebbero ore, giorni, mesi ed anni per poter esplorare la più piccola parte di quell’immensità. E dopo una vita sprecata a percorrere l’impossibile vi sarebbe più soltanto la rassegnazione. Chi se non il sommo poeta poteva arrivare a spiegare con una tale finezza il concetto dell’incapacità di vivere in un “mondo sanza gente”? Il suo Ulisse è stato dunque un uomo che ha provato nell’ultimo momento della sua vita a conoscere Dio e per questa sua ossessiva volontà non l’ha mai conosciuto.

Ma d’altronde quello spazio in movimento, come una vera e propria divinità, dev’essere essere accolto per poter essere compreso. Al contrario, se compresso, si ribella e fa scaturire la sua più cupa natura. Questo dimostra quanto importante sia non solo la reverenza verso i turbinosi movimenti marini ma anche il rispetto che molto spesso la dovrebbe precede. Lo capì Ernest Hemingway dopo una vita spesa sulle coste e lo descrisse nel suo testo più famoso, che per onor di cronaca gli valse un Pulitzer e un Nobel. Santiago, il vecchio marinaio, protagonista di un’angosciosa battuta di pesca, si accorge sempre di più dell’importanza che deve avere la concordia tra l’infinito e il finito. “Mi stai uccidendo, pesce, pensò il vecchio. Ma hai il diritto di farlo. Non ho mai visto nulla di grande e bello e calmo e nobile come te, fratello. Vieni a uccidermi.” Hemingway permette al suo personaggio di rendersi conto del suo valore di fianco a quella grandezza, di quanto non solo fosse minuscolo, ma di quanto fosse parte di esso.

Perché gli uomini senza il mare non sopravvivono, quantomeno per la sete di bellezza universale.

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