• sabato , 20 Aprile 2024

Prosucco anziché prosecco

Da qualche tempo c’è una nuova novità nel panorama della movida italiana: i bar bianchi. Considerati fino a poco tempo fa come delle attività di tipo “d”, questi locali sono caratterizzati dalla scelta da parte dei gestori di non somministrare nessun genere di alcolico, nemmeno un bicchiere di birra o un caffè corretto. Inizialmente queste decisioni erano dettate da motivi prettamente economici, che con il tempo sono stati rimpiazzati da motivi di carattere etico. Nella città di Torino la presenza di bar di questo genere gestiti da proprietari italiani sono molto rari e i pochi presenti si concentrano in luoghi tutelati come le scuole. Gli altri locali “white” sono gestiti per lo più da musulmani.

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Alcuni aprono queste attività perchè spinti da una motivazione religiosa, altri invece per evitare spiacevoli disagi come risse, clienti ubriachi, bottiglie rotte sui marciapiedi e lamentele, nel tentativo anche di migliorare la vivibilità di alcuni quartieri.

Di quest’idea è Bahaa Ewis, detto Bibo, che pur non servendo alcolici dal lontano 1999 mantiene una media di circa 500 clienti al giorno. Certo, ci vuole una buona dose di coraggio e un pizzico di senso di avventura per decidere di aprire un locale improntato su questa mentalità. I rischi che l’attività non vada bene sono alti e, come dice Bouzekri Harak (Bruss), il pericolo di perdere i clienti incombe sempre.

Non tutti i proprietari però possono permettersi di rischiare. Amr Seleem ad esempio era arrivato a una perdita di circa 200 euro di incasso al giorno e nonostante abbia cercato di resistere il più a lungo possibile in nome della sua religione, ha dovuto arrendersi e accettare il compromesso di servire alcolici fino alle 22,30. Quello dei locali bianchi è senza dubbio un fenomeno particolare che ha riscosso sì riscontri positivi, ma anche numerose critiche. C’è chi come Giancarlo Banchieri, non coglie l’ulilità e il senso di “precludere a un cliente la possibilità di cenare con un calice di Nebbiolo, in una città in cui nei soli sei mesi di gennaio e febbraio hanno chiuso 138 imprese che somministravano cibi e bevande.”

 

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Avrebbe più senso forse limitarsi al divieto di superalcolici, senza negare però un calice di birra o un bicchiere di vino. Se così facessero però, i proprietari non sarebbero coerenti con la mentalità su cui si basano i “white bar” e queste imprese si svuoterebbero di ogni senso. È invece da ammirare l‘audacia di questi piccoli gestori nel portare avanti un’idea tanto innovativa quanto rischiosa, tenendo fede ai loro ideali etici e religiosi. Questi locali potrebbero infatti diventare dei toccasana importanti se riuscissero a diffondersi nei quartieri malfamati, dove è frequente l’uso e l’abuso di alcol.

Per quanto riguarda le frequentazioni invece, questi locali sono da considerarsi più sicuri rispetto agli altri a causa della loro clientela più specifica e selezionata, priva di individui resi molesti dagli alcolici e di conseguenti situazioni pericolose e spiacevoli. Nei bar bianchi si respira un clima di tranquillità adatto a tutti, dalle famiglie, ai giovani, agli anziani. Lo conferma anche Bruss dicendo che nel suo locale “la gente suona la chitarra, gioca a scacchi, fuma il narghilè. E lontani da gin tonic e vino, i miei clienti dialogano e si conoscono meglio, creando tra loro legami più profondi.”

 

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Si sviluppano nuovi passatempi che permettono di conoscersi più a fondo e passare del tempo insieme in modo sano. Forse è anche questa una delle sfide di questi nuovi locali: dimostrare come alcol e divertimento siano due concetti non necessariamente collegati. Questo fenomeno dei bar bianchi sembra quasi configurarsi come un paradosso, un’eccezione in un tempo in cui l’uso dell’alcol è diffusissimo e spesso erroenamente considerato un modo di incrementare il divertimento. La grande scommessa quindi è far diventare anche l’analcolico una grande moda.

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