• giovedì , 28 Marzo 2024

Benvenuti nel Far West

Ventotto clan, novecento affiliati. 30 anni di omicidi, 29 casi dall’inizio del 2017 e 17 nella sola provincia di Foggia. Sono questi i numeri che caratterizzano la cosiddetta “mafia garganica”. C’è voluto, però, il coinvolgimento di due civili, che avevano la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, per ricevere l’attenzione e gli aiuti necessari da parte dello Stato.

Vieste e San Marco in Lamis. Sono queste le due cittadine finite nell’occhio del ciclone della pressione mediatica, perchè gli omicidi in questione si sono verificati in estate, periodo in cui la zona, meta prediletta di turisti italiani e non, è particolarmente frequentata. Il primo caso ha coinvolto Omar Trotta, viestano di 31 anni, ucciso in pieno giorno all’interno del suo locale nel centro della città, a quell’ora vuoto. A San Marco, invece, sono rimaste uccise quattro persone: il boss di Manfredonia, Mario Luciano Romito, 50 anni, il cognato Matteo De Palma, che gli faceva da autista, e Luigi e Aurelio Luciani, due contadini che, come tutte le mattine, stavano andando a lavorare nelle campagne circostanti, teatro della carneficina.

Il luogo dove è avvenuta la strage di Vieste

Il 10 agosto, all’indomani dell’ultima strage, il Ministro dell’Interno Marco Minniti convoca il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica in prefettura a Foggia. Davanti a diverse personalità pugliesi, come il Presidente della Regione Michele Emiliano e il sindaco della città Franco Landella, Minniti promette una risposta che si articolerà in tre livelli di intervento: “Controllo del territorio, rafforzamento della capacità investigativa e uso delle moderne tecnologie”. Ma servirà anche “una rivolta morale dei cittadini della provincia di Foggia in cui i sindaci giocheranno un ruolo decisivo”. Tutto quello che i sindaci e le autorità avevano già richiesto a marzo, in una denuncia su Il Fatto Quotidiano.it. Hanno scritto, infatti, che nella provincia la Procura e le forze dell’ordine sono sotto organico rispetto ad altre realtà, la mancanza di una direzione distrettuale antimafia vicina (l’organo di riferimento per le autorità foggiane è tuttoggi la Procura di Bari, ndr) e la difficoltà nell’operare dei reparti investigativi rende la situazione “esplosiva”, in una zona con il più alto tasso di reati in proporzione alla popolazione residente. Un territorio che richiede, dunque, un monitoraggio e un aiuto costanti e non solo dovuti a un passeggero polverone mediatico.

Ed è proprio la popolazione ad essere maggiormente preoccupata. La provincia di Foggia è, per quanto riguarda l’estate 2017, la zona con maggiori presenze dell’intera Puglia. Le coste, il mare cristallino, la buona cucina e l’affabilità della gente le permettono di registrare numeri lontanamente immaginabili dal Salento, che pur gode di un’alta attenzione mediale. Sembra, però, che il tacito accordo di pace tra le famiglie malavitose per quanto riguarda il periodo estivo quest’anno non sia stato più rispettato.  Se, dunque, dovessero subire il contraccolpo legato al danno d’immagine della guerra di mafia sarebbe molto grave, dal momento che il turismo è la loro più grande ricchezza.

Ma ciò che colpisce è sicuramente il terrorismo psicologico suscitato da questi casi. Pensare, infatti, che “tanto si uccidono tra di loro” era una protezione, un modo per allontanare da sè ogni genere di paura. La gente sa bene come sopravvivere alla mafia. ” ‘A megghiu parola è chidda ca ‘un si dici” (la parola migliore è quella che non si dice) recita un antico proverbio siciliano. Sembra valere anche qui. Bisogna pagare il pizzo, fare favori agli “uomini d’onore”, non ostacolare chi di dovere. Ora non è più così. Con l’uccisione di due semplici contadini tutto è cambiato. Non vogliono più essere lasciati soli, come dimostrato dalla folla presente ai funerali dei fratelli Luciani. Lo Stato non deve sparire perchè a Foggia e provincia, parafrasando il titolo di un film di Pier Francesco Diliberto (Pif), la mafia non uccide solo d’estate.

 

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