• venerdì , 29 Marzo 2024

Rapporti e conflitti fra bene individuale e bene comune

“Accanto agli uomini i quali concepiscono la vita come godimento individuale, vi sono altri uomini, fortunatamente i più, i quali, mossi da sentimenti diversi, hanno l’istinto della costruzione”. Nel 1949, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, nel suo saggio “Lezioni di Politica Sociale”, divideva i cittadini in due opposte categorie. In altre parole, il secondo Presidente della Repubblica Italiana considerava l’interesse verso il bene comune come il principale discrimine per distinguere un uomo virtuoso da un uomo non virtuoso.

Spesso, negli ultimi anni, si è parlato di nuovo di bene comune, soprattutto all’interno del dibattito politico. I promotori del referendum del 2010 per la gestione dell’acqua, ad esempio, affermarono di voler combattere un governo che stava anteponendo, a loro avviso, l’interesse di grandi aziende private (che si occupavano della gestione di alcuni acquedotti italiani) al “bene comune“. I promotori di quel referendum davano all’idea di bene comune un significato materiale: l’acqua, essendo di “proprietà” di tutti i cittadini, non poteva essere venduta senza l’assenso degli stessi ad un’azienda privata, che avrebbe sfruttato un “bene comune” per il proprio interesse.

Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi

Nel suo saggio, tuttavia, Einaudi intendeva dare all’idea di “bene comune” anche un significato astratto, intendendo con questo termine anche un rapporto fra i diritti dei singoli cittadini e lo Stato, in maniera simile a quanto affermato già da Tommaso d’Aquino nella sua “Summa Theologiae”. Secondo Tommaso, infatti, il sovrano che promulga le leggi non dovrebbe pensare esclusivamente al proprio interesse personale, in quanto chiamato a non prevaricare sui diritti dei propri sudditi, ma a mantenere un rapporto di uguaglianza di tutti di fronte alla legge. I cittadini, infatti, devono essere intesi come la “parte di un tutto”: se i più potenti dimenticano le classi svantaggiate, o se questi ultimi cercano di cambiare la loro condizione in maniera violenta, patisce tutto lo Stato. Anche Tito Livio, per bocca del senatore Romano Menenio Agrippa (chiamato a sedare la rivolta della plebe passata alla storia come “Secessione dell’Aventino, nata appunto a causa delle prevaricazioni dei patrizi nei confronti dei plebei), espresse questo concetto nel celebre apologo in cui lo Stato viene paragonato ad un corpo che, se non viene nutrito per la gelosia nei confronti dello stomaco delle altre parti del corpo, è destinato a morire.

Le lotte intestine e la prevaricazione di una classe sociale sull’altra non sono, tuttavia, le uniche nemiche del bene comune. Jean-Jacques Rousseau, nel suo “Contratto Sociale”, vedeva nelle “sottigiliezze politiche” uno dei fattori che impediscono ai cittadini di manifestare le loro rivendicazioni. Secondo Rousseau, per superare una lotta politica malsana era necessario che “parecchi uomini riuniti” si considerassero uno solo, rendendo le “forze motrici dello Stato” vigorose e semplici. Nella visione del filosofo francese, il popolo non era in grado di esprimere in maniera corretta le proprie necessità, perchè ciascuno avrebbe aggiunto ad esse delle rivendicazioni puramente personali, che avrebbero scontentato alcuni, generando un dibattito politico sterile e dannoso, che lo stesso Rousseau definisce “nemico della pace, dell’unione e dell’uguaglianza“.

San Tommaso d’Aquino, filosofo medievale che vide nell’uguaglianza di fronte alla legge uno dei cardini dello Stato

La visione espressa da Rousseau nel “Contratto Sociale”, tuttavia, può anche dar luogo a conseguenze pericolose. Quando un unico gruppo di persone, infatti, si propone come unico interprete della volontà generale, possono nascere delle forme di “democrazia totalitaria”, se non una vera e propria dittatura. I giacobini, al potere in Francia tra il 1793 e il 1794, giustificarono la loro politica del terrore come una interpretazione della “volontà generale” del popolo francese. In realtà, essi erano sostenuti soltanto dai gruppi più rivoluzionari dei sanculotti, i cui “club” costituivano una parte minoritaria dell’elettorato francese, pari circa al dieci per cento. Anche i più celebri dittatori del Novecento, tra cui lo stesso Hitler, si proposero come interpreti della volontà popolare, arrivando grazie al loro carisma e ad un’abile attività di propaganda a far credere anche a molti cittadini inizialmente scettici riguardo il loro operato che la volontà degli apparati governativi coincidesse davvero con le esigenze dei cittadini. Queste forme di governo, dunque, annullano totalmente il concetto di bene comune, perché non operano in favore dei cittadini, ma nella loro propaganda esagerano addirittura questa stessa idea, proclamando la superiorità del bene comune su quello individuale.

Maximilien Robespierre, politico francese che fu a capo del “Regime del Terrore” dal 1793 al 1794

 

Anche il bene individuale, infatti, non dovrebbe essere trascurato o osteggiato. Secondo Giuseppe De Rita è necessaria la “centralità dell’uomo come motore del bene comune”. Mettere l’uomo al centro, dunque, implica un riconoscimento dell’importanza dei beni materiali, senza i quali è molto più difficile soddisfare il naturale anelito di ciascuno verso quelli immateriali. Senza i mezzi per autosostnersi, è molto più difficile per ciascuno di noi raggiungere quello che lo stesso De Rita, nel suo saggio “Le Undici Regole del Bene Comune” chiama un appagamento spirituale portato da benefici immateriali come i sentimenti, la famiglia e la pace”.

Senza il bene individuale, dunque, il bene comune rischia di diventare un’arma nelle mani di alcuni gruppi desiderosi di accentrare il potere nelle loro mani, ma, allo stesso tempo, senza il bene comune il bene individuale si riduce ad un ricerca egoistica di un vantaggio personale. Solo la compresenza di entrambi, dunque, può determinare un corretto rapporto fra Stato e cittadino, ma anche obbligare ciascuno di noi alla ricerca dei beni materiali, ma anche e soprattutto di quelli immateriali.

 

 

 

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