di Agnese Donna e Marta Cirio
“Tutti devono conoscere la tua storia”. Marie Colvin diede voce ad una donna, forse una vedova, forse una madre con in braccio solo più il ricordo di suo figlio, o forse addirittura una donna nel suo ultimo istante di vita, che voce più non aveva. Essere lì, con lei, in quel momento: una conditio sine qua non. Questo ha percepito in modo intenso la redazione del Salice che ha assistito alla proiezione del film “A private war”, la storia di Marie Colvin, la giornalista di guerra statunitense del quotidiano inglese The Sunday Times uccisa in Siria nel 2012. Vedere, raccontare, provare quegli orrori, condanna della sua stessa perdizione, rimane l’unico spiraglio di fede, in quel buio più profondo. Ferite mortali di spade affilate erano quelle voci fraterne, ossessive, che la fronteggiavano, imprigionandola nel suo stesso tormento.
“Ho guardato il mio volto e l’ho veduto duro, disfatto, privo di ogni attesa, una buccia di frutto ottenebrata quasi rósa dal nulla ed insipida e orrenda e indecorosa… Dico, ho visto il mio volto di pazienza e mi sono oscurata dentro il cuore”. Questa poesia di Alda Merini riassume perfettamente lo stato d’animo, i pensieri, la malinconia della protagonista nel vedersi allo specchio: un fiore sfiorito. Come un ramo vede a la terra tutte le sue foglie, così una giornalista, un’inviata di guerra privata di un occhio, perde ciò che più l’avvicina alla verità. La sua passione l’aveva assorbita a tal punto da esserne divenuta dipendente, lei era la sua stessa passione. Questa fiamma la divorò e, sola, si spense, dissolvendosi nella Verità.