• giovedì , 28 Marzo 2024

La certezza della pena

di Ludovica Veneziano

“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.”

Così recita l’articolo 27 della Costituzione italiana dove si evidenzia l’opposizione dello stato sulla pena di morte. Ciò significa che chiunque, nonostante la gravità del crimine da egli compiuto, può ricevere come massima pena l’ergastolo.

La condanna a morte è rimasta solamente in alcuni paesi (tra cui gli Usa) anche se molto raramente viene comminata. Un caso che fece molto scalpore fu infatti quello dello statunitense Ted Bundy, un serial killer che negli anni 70 uccise 35 donne. Morì all’età di 42 anni sulla sedia elettrica, con il sollievo di migliaia di persone che chiedevano giustizia per le vittime, sperando che la sua anima potesse finire in un inferno peggiore di quello descritto da Dante.

La vera domanda, tuttavia, non è sapere dove finiscono questi assassini giudicati colpevoli dalla giustizia, bensì se è corretto privare un individuo del proprio diritto inderogabile sulla vita.

Nel XXI secolo non è più pensabile punire una persona secondo la legge del taglione, occhio per occhio dente per dente, e nella maggior parte degli Stati si privilegia una politica che mira alla rieducazione dei carcerati. Quest’ultima risulta utile per chi commette crimini minori qualora i detenuti si impegnino a reinserirsi all’interno della società, assumendosi le proprie colpe. Per coloro che invece tolgono la vita a innocenti esseri umani, non può esistere un metodo per eliminare la loro crudeltà e pazzia.

Innumerevoli volte assistiamo a processi dove individui che ammazzano con terribile freddezza i propri partner, familiari o sconosciuti ottengono  il minimo della pena, riuscendo così ad essere di nuovo liberi relativamente solo dopo pochi anni. A fronte di giovani donne stuprate, sfigurate dall’acido e poi uccise.

Riti abbreviati, patteggiamenti non dovrebbero neanche esistere quando si tratta di omicidi perché chiunque commette  un tale crimine meriterebbe di restare in carcere per il resto della propria vita. In linea teorica bisognerebbe cercare di rendere più lunga  la detenzione per l’omicida senza sanguinario desiderio di vendetta ma in virtù di una punizione proporzionata all’azione delittuosa commessa. Purtroppo però questo assunto viene a cozzare con l’ormai antico problema del sovraffollamento delle carceri che non riescono più a far fronte alla continua reclusione di nuovi colpevoli.

Cesare Beccaria nel trattato “Dei delitti e delle pene” asseriva che per prevenire i delitti e punirli, le leggi dovessero essere chiare e semplici, e che la nazione si sarebbe dovuta impegnare a rispettarle e difenderle. Lo Stato dovrebbe, quindi, impegnarsi a punire nella giusta misura chiunque commetta omicidi; la pena di morte è incomparabile per intensità a qualsiasi altra condanna, la lunghezza della pena, che nella maggior parte dei casi dovrebbe essere a vita, è infatti più logorante sia mentalmente che fisicamente per l’individuo.

L’ergastolo risulta così essere il giusto equilibrio per chi commette crimini di tale gravità, per il rispetto delle famiglie delle vittime e per prevenire altri omicidii.

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