• giovedì , 28 Marzo 2024

Le Troiane a Siracusa

di Luisa Gargano

Inizia con forti spari ed esplosioni la tragedia messa in scena dalla regista Muriel Mayette-Holtz. Noi spettatori siamo colti di sorpresa e pervasi da vero timore. Il primo pensiero, dopo lo spavento, è di cupo sollievo: ci rendiamo conto di avere la fortuna di non aver mai provato l’esperienza della guerra sulla nostra pelle.

Subito corre in scena il coro di donne Troiane che dà il nome alla tragedia, uscendo da un’imponente scenografia disegnata da Stefano Boeri e pensata come un potente simbolo di rinascita e speranza: è infatti realizzata con i tronchi degli alberi abbattuti dalla terribile tempesta che ha distrutto le foreste dei monti della Carnia, in Friuli, lo scorso ottobre. Questi spettrali abeti, piantati ritti sulla scena quasi come missili pronti al lancio, evocano un paesaggio spettrale e minaccioso, che caratterizza in modo molto efficace la desolazione di Troia devastata da dieci anni di guerra e ormai invasa dagli Achei vincitori. Un’ultima apparizione che restituisce a questi alberi la loro maestosa nobiltà.

Al centro della scena, scarna, polverosa e tetra, si muove una fortissima Ecuba, interpretata da una vibrante Maddalena Crippa, regina ormai senza regno, disperata e circondata dalle donne troiane. Aspettano il loro inevitabile e orrendo destino, quello di essere portate via dalla loro terra come schiave degli eroi greci. A comunicare le loro destinazioni è un ambiguo messaggero, Taltibio, interpretato da Paolo Rossi che lo caratterizza come personaggio altalenante, tra battute di accennata compassione e empatia per le donne troiane e atteggiamenti di arroganza e disprezzo noncurante. E’ interessante notare come anche gli Achei vincitori siano vestiti degli stessi abiti grigi e sporchi delle prigioniere troiane, a sottolineare come la guerra non fa distinzioni di alcun genere e porta dolore e lutti da entrambe le parti: una delle interessanti idee della costumista Marcella Salvo. Taltibio annuncia i destini delle grandi donne, figlie di Ecuba, ormai tutte vedove o orfane: Polissena è stata sacrificata sul rogo di Achille; Cassandra sarà assegnata ad Agamennone e viene presa da un delirio profetico (reso meravigliosamente da Marial Bajma Riva, perfetta per la parte), e Andromaca (una dolcissima, forte e sincera Elena Arvigo) dovrà partire con Neottolemo, figlio di Achille. Lo strazio di Ecuba al vedere le orribili sorti delle sue figlie culmina quando le viene annunciato che a lei toccherà essere schiava proprio di Odisseo, l’odioso ingannatore che ha ordito la distruzione della città.

In un interessante episodio, compare sulla scena anche Elena, riunita al marito Menelao che ha deciso di ucciderla una volta tornato in Grecia. Elena si difende, incolpando Ecuba di aver messo al mondo Paride e le tre dee di averlo costretto a compiere una scelta fatale; Ecuba le dice invece che è ridicolo credere in simili storie sugli dei e che il suo comportamento è solo opportunismo: mette infatti in guardia Menelao affinché non rischi di cambiare idea sedotto dal fascino della moglie. Anche in questa tragedia, come in molte altre di Euripide, gli dei sono fortemente messi in discussione: appaiono sì potenti e maestosi, come Poseidone e Atena all’inizio della tragedia, ma vengono subito svelati come volubili e capricciosi fantocci che si divertono a interferire nelle faccende umane senza alcuna giustizia o compassione. Durante tutta la tragedia, le donne troiane mettono in dubbio la validità degli dei tradizionali, spesso però invocando una divinità più alta, più giusta, a cui anelano ma che sentono comunque lontana e irraggiungibile (disse Charles Peguy che “gli antichi non hanno avuto gli dei che si meritavano”).

Il momento di massimo pàthos arriva con l’annuncio del terribile destino del piccolo Astianatte, un tenerissimo Riccardo Scalia, figlio del defunto principe Ettore e di Andromaca: in quanto ultimo erede della stirpe di Priamo, sarà gettato dalle Porte Scee. Quando il suo cadavere viene riportato ad Ecuba, crudelmente adagiato sullo scudo del padre, le donne Troiane gli rendono l’estremo saluto spogliandosi delle loro vesti grigie e rivelando sotto di esse degli abiti rossi, segno della loro forza, della loro dignità e soprattutto del loro essere donne nonostante gli orrori della guerra. Nell’ultima scena, un meraviglioso effetto scenico realizzato con vere fiamme racconta dell’estrema distruzione di Troia.

E’ interessante pensare al contesto storico in cui questa tragedia è stata scritta: Euripide la mise infatti in scena per la prima volta alle Grandi Dionisie del 415 a.C., un anno dopo i fatti di Melo. Questa piccola isola del mare Egeo, colonia spartana ma da sempre indipendente, si era rifiutata di aderire alla Lega Delio-Attica guidata da Atene, e aveva espresso la ferma volontà di rimanere neutrale nella guerra del Peloponneso che da quindici anni vedeva contrapposte Atene e Sparta. Convinti di essere nel giusto in quanto militarmente più forti, gli Ateniesi non avevano tollerato questo rifiuto e avevano massacrato gli uomini della pacifica Melo e fatto schiavi bambini e le donne. Descrivendo nella sua tragedia una situazione analoga, Euripide vuole usare la sua arte per muovere scomodi e profondi interrogativi alla sua polis, mettendosi dalla parte dei deboli e degli sconfitti, mostrandoli in una luce nuova e pienamente umana: chiede se Atene si rende conto di cosa sta facendo, se è davvero convinta della giustizia di questa sua belligerante, eccessiva politica di imperialismo.

Non è un caso che al suo tempo Euripide fosse malvisto dai suoi concittadini: vinse solo quattro agoni teatrali e verso la fine della sua vita, nel 408, dovette trasferirsi in Macedonia. Solo molti secoli più tardi ha iniziato a essere veramente apprezzato come il più moderno dei tre grandi tragediografi della Grecia classica, e infatti, se noi oggi riusciamo a commuoverci per i suoi personaggi e cogliere il messaggio di pacifismo che Euripide vuole trasmettere con questa tragedia, come con l’Elena che quest’anno si alterna alle Troiane a Siracusa per il 55° Festival del Teatro Greco, sul tema “Le donne e la guerra”, probabilmente gli ateniesi del tempo non la vedevano allo stesso modo – in ogni caso pare non abbiano colto il messaggio, dato che proprio nel 415, qualche mese dopo la rappresentazione delle Troiane, fecero salpare un’altra ambiziosa, inutile e disastrosa spedizione, questa volta contro Siracusa.

L’ambientazione sabbiosa e grigia rende ancora più attuale il tema delle donne colpite dalla guerra, legandolo immediatamente nei nostri occhi alle immagini dei conflitti in Africa e Medio Oriente e alle storie delle donne che scappano da questi orrori attraversando il Mediterraneo: il grido di Ecuba, di Andromaca, di Cassandra è il loro grido, e per questo risuona ancora più forte.

Il fatto che questa tragedia, rappresentata in modo così filologico e imponente, abbia ancora molto da dirci e riesca a commuoverci, a farci sentire umani e connessi ai personaggi ma anche al pubblico, raccolto nella cavea di un teatro antico più di duemila anni e illuminato dal tramonto siciliano, è la ragione per cui il Festival del Teatro greco di Siracusa è giunto già alla cinquantacinquesima edizione, e probabilmente vivrà ancora per molte altre: come dice bene l’espressione legata alla stagione di quest’anno, il nostro è “un presente antichissimo”.

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