di Valentina Mariconda
Cara Venere, oggi ti scrivo perché da poco ho avuto l’opportunità di confrontarmi con un’opera teatrale del libro “Dialoghi con Leucò”. Leggendo i sette dialoghi, poi rappresentati al teatro Marcidofilm, dove i protagonisti sono stati gli attori del gruppo teatrale Marcido Marcidorjs, ho scoperto un mondo nuovo, composto da Dei fin troppo sorridenti, uomini capaci di far innamorare la Luna, e mortali trasformati in oggetti o animali della natura.
In particolar modo vorrei raccontarti della storia di Circe, la strega, ed il suo Ulisse, il famosissimo personaggio mitologico.
Circe, strega capace di trasformare gli uomini in bestia, chiacchierando con la sua amica Leucotea, racconta della sua unica avventura con un uomo, Ulisse. Quest’ultimo è descritto da lei come un uomo intelligente, coraggioso, ma con un difetto: “Non seppe mai cos’è il sorriso degli dèi – di noi che sappiamo il destino.”
E dunque c’è da chiedersi: cos’è il sorriso degli dèi? In questo caso il sorriso è negativo, è sinonimo di menefreghismo, dell’incapacità degli dei di percepire la serietà presente nelle cose della vita dell’uomo. Parlando tra loro, spesse volte le streghe menzionano il fatto che sono a conoscenza del destino dell’uomo e delle cose, e sorridono di questo. Sorridono della sofferenza, della morte, delle cose terribili che accadono agli uomini. Questo accade poiché vivono in un mondo idilliaco, fatto di divertimento e cose banali, troppo leggere per permettere loro di riuscire a capire la serietà del mondo mortale. Serietà dovuta innanzitutto al suo stesso nome, mortale, nel quale “anche il pasto quotidiano era serio e inedito”. Circe parla così delle relazioni dell’umano, aggiungendo: “Tu non sai quanto la morte li attiri. Morire è si un destino per loro, una ripetizione, una cosa saputa, ma s’illudono che cambi qualcosa.” In questa affermazione si può cogliere qualcosa di profondamente veritiero quanto terribile. Noi uomini ci confrontiamo con la morte continuamente. La leggiamo dei libri di storia, la piangiamo quando a subirla è qualcuno di caro, e infine l’accogliamo quando è il nostro destino. Ma dentro ognuno di noi, risiede e risiederà sempre la speranza di, in qualche miracoloso modo, scamparla, fuggire da essa. La morte quindi in che modo ci attira? Credo che ci attragga essendo al tempo stesso una certezza e un grande mistero. La studiamo, la osserviamo, cerchiamo di sfuggirne scientificamente o teologicamente, talvolta ipotizzandone un dopo. Ci attira perché è un’enorme incognita che non riusciamo a sopportare.
Trovo dunque comico e inquietante che un dio, dotato di vita eterna, possa conversare della morte, non conoscendone la drammaticità. Circe però, pur non essendo una mortale, è un’attenta osservatrice, e aggiunge “Qualcuno di loro sa ridere davanti al destino, sa ridere dopo, ma durante bisogna che faccia sul serio o che muoia.” In queste parole si capisce la sostanziale differenza tra mortale e immortale. L’immortale può ridere della sua risata indifferente perché il destino, per quanto meraviglioso o deludente possa essere, non annullerà mai la sua esistenza. Il mortale invece nel corso del suo destino corre sempre il rischio di scomparire, di non poter più amare, non poter più sorridere. E la cosa più terribile è che potrà fuggire dal suo destino di morte più volte, ma prima o poi dovrà obbligatoriamente abbracciarlo.
Questa è la differenza tra il sorriso degli dei e quello degli uomini. Il sorriso degli dei è per sempre, quello degli uomini è solo in attesa.
Circe racconta inoltre a Leucotea di una caratteristica piuttosto strana di noi uomini: i nomi che diamo a ogni cosa. “Lui mi rispose che in patria lo attendeva un cane, un povero cane che forse era morto, e mi disse il suo nome. Capisci, Leucò, quel cane aveva un nome.” La strega si stupisce del fatto. Come può una bestia, in questo caso un cane che potrebbe essere già morto, avere un nome. Gli dei non hanno bisogno di dare nomi, il loro mondo è troppo immortale e infinito per dare nome a qualcosa che esisterà per sempre. L’uomo invece ha il dovere di nominare le cose, le persone e tutto ciò che caratterizza il mondo che conosce. Questo perché ogni cosa scomparirà, non esisterà più, e per piangerla avrà bisogno di avere un nome, da usare nelle preghiere e nei ricordi.
“L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.”
L’ultimo commento che Circe lascia dell’uomo è questo, che ritengo essere il più poetico e meraviglioso. Il ricordo, ciò che il mortale possiede di immortale.
Ma è davvero tutto così tragico? Noi umani siamo destinati solo alla disperazione e alla serietà? Di fronte a questi interrogativi vorrei raccontarti di un’altro dialogo, che potrà sollevarci da quest’ultimo.
Parlano una Musa, Mnemòsine, e un contadino, Esiodo. Quest’ultimo si lamenta con la Musa della scontentezza di essere uomo, dovuta alla quotidianità che si ripete immutevole. “Provo un fastidio delle cose e dei lavori come lo sente l’ubriaco.” Esiodo però parla diversamente delle cose passate, poiché pensandoci gli pare di essere stato contento.
Anche in questo dialogo ricompare il tema dei nomi, quando Esiodo cerca un nome per la Musa. Questa però ha già mille nomi, poiché prima di lui molti uomini l’hanno già nominata a proprio piacimento dall’inizio dei tempi, come è solito fare dai mortali.
Dopodiché si entra nel succo del dialogo: Mnemòsine domanda ad Esiodo come immagina la vita degli immortali. L’uomo ovviamente non è in grado di rispondere e dunque la Musa lo spiega con un semplice esempio: chiede se fermandosi davanti a qualcosa di banale, come un albero o un sasso, non abbia provato una sensazione di contentezza. Esiodo riconosce questo sentimento nel ricordo, nella nostalgia di qualcosa di bello. “Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più.” La Musa spiega al contadino che è così che vivono gli immortali. In un mondo fatto di attimi felici, di ricordi divenuti “passione ripetuta”.
Dunque il mondo immortale risiede nelle cose del mondo mortale, e l’uomo sa cos’è la vita degli dei. È in queste parole che risiede il contrasto con il dialogo di Circe. Per le streghe l’uomo non è neanche paragonabile agli dei, poiché la sua esistenza è troppo seria e drammatica. La Musa invece si confronta con Esiodo, mortale, e gli fa assaporare l’immortalità, che in realtà risiede nel suo stesso mondo di fastidio e scontentezza.
“Non capisci che l’uomo, ogni uomo, nasce in quella palude di sangue? E che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.”
Questa la conclusione di Mnemòsine, che mette l’uomo in stretta relazione con gli immortali. Risulta che l’immortalità e la mortalità attingano le proprie origini dalla stessa fonte di vita, e che dunque siano quasi la stessa cosa. La Musa, a differenza delle streghe maligne e altezzose, riconosce e ammira l’esistenza dell’uomo, e fa conoscere a quest’ultimo gli elementi immortali del suo stesso mondo. Esiodo ora che sa di poter toccare l’immortalità, è tenuto a raccontare ai suoi compagni di quel che sa, e donare la speranza ad ognuno di loro.