• venerdì , 19 Aprile 2024

TOC TOC…CHI E'? "LIBRO DI PIETRE VIVE"

D'Annunzio_2LA VITA

Nel 1882 un ragazzo abruzzese nato nel 1863 a Pescara, trasportato nella capitale, si era ormai inserito pienamente nella società dell’epoca, fatta di pettegolezzi e salotti. Colui che un anno prima era ancora un giovane ed intemperante collegiale ha compiuto una metamorfosi tale da trasformarlo in un artefice di eleganza.

Nel 1883 conobbe la futura moglie, Maria Hardouin di Gallese, rapita in una fuga romantica prima del matrimonio, celebrato il 28 luglio dello stesso anno: l’elegante e bionda moglie diede al poeta tre figli dei quali d’Annunzio non si occupò granché.

Non dedicò alcuna attenzione all’educazione dei figli ed alla famiglia, convinto infatti che il Genio dovesse per importanza precedere il Padre: non lasciò alcunché in eredità ai figli, la Fondazione Vittoriale degli Italiani è l’unico ente a beneficiare dei beni di Gabriele d’Annunzio.

Il matrimonio si spezzò presto, quando, nel 1887 avvenne l’incontro con Barbara Leoni, con la quale il Vate andò a convivere.

Dopo essersi con forza battuto per l’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale, prese parte ad essa schierandosi in prima linea: vengono ricordati il volo su Vienna e la beffa di Buccari. Offeso dalla “vittoria mutilata” che non definiva Fiume come città italiana, la occupò per sedici mesi, dandole una costituzione, denominata del Carnaro, fra le più moderne del secolo scorso.

Inadatto alla vita politica, inizialmente si era schierato fra i senatori della destra conservatrice ma, durante una seduta della Camera, corse nell’ala opposta gridando: “Si va verso la vita”. Egli amava l’idea di essere considerato un deputato della bellezza, un grande pacificatore: fu onorato dalla visita di alcuni ras che precedette la marcia su Roma, gli era stato infatti proposto di essere la nuova guida del fascismo. Ma d’Annunzio era ormai ritirato nel suo monacale eremitaggio e si accontentò, nel 1924, di essere insignito del titolo di Principe di Montenevoso, una cima dell’Istria assegnata all’Italia.

Trasferitosi al Vittoriale dopo l’esilio francese, d’Annunzio morì il primo marzo 1938.

INTERVISTA A GIORDANO BRUNO GUERRIGABRIELE (5)

In questi giorni di ansie e studio disperato, il Vittoriale degli italiani è come un’oasi immensa ed imponente che accoglie con le sue stravaganze i visitatori sul soleggiato lago di Garda. Circolano varie leggende su questo vero e proprio principato, su quella che è la casa più singolare al mondo, l’antro di un genio del passato. E’ il viaggio nella mente di un uomo che, dopo aver dedicato quasi un ventennio della sua vita alla costruzione del “Libro di pietre vive”, alla sua morte dona questa sua ultima opera allo stato, chiudendo le porte del suo castello alle tante donne e agli stravaganti individui che quotidianamente si recavano in questo immenso parco. Giordano Bruno Guerri, curatore del Vittoriale, ha risposto direttamente ad alcune domande e curiosità che assalgono i visitatori che ogni anno si affollano alle entrate della Prioria.

Perché, secondo Lei, il Vate si sarebbe trasferito all’improvviso in questa prigione dorata, quando avrebbe potuto continuare a viaggiare conquistando il mondo?

Gabriele fu il primo a conquistare uno stato, e, dopo la guerra e le famose imprese celebrate in tutto il mondo, che altro avrebbe potuto fare? Solamente il posto di Mussolini avrebbe potuto permettergli un’ascesi così alta, ma la guida del paese non fu a lui affidata e non gli rimase quindi altro se non cimentarsi in questa ultima grandiosa opera, la più dispendiosa e di gran lungo la più faticosa da mettere in atto: gli oggetti, i libri, gli edifici e le opere qui contenuti sono la vita di d’Annunzio, un testamento cui furono dedicati diciassette lunghi anni.

Come definirebbe lei il rapporto fra d’Annunzio ed il fascismo?

Molti hanno definito il Comandante come il “Giovanni Battista” del fascismo benché, a mio avviso, si tratti unicamente di una scopiazzatura bella e buona. D’Annunzio non nutriva infatti alcuna simpatia per il regime. Con l’impresa fiumana aveva voluto dimostrare come lo stato liberale potesse essere sfidato e vinto; ora non voleva che il suo fascino di poeta guerriero fosse confuso con il carisma di un demiurgo.

Come è diventato curatore di questo immenso museo?

La mia prima visita al Vittoriale risale al 1972 quando mi recai a Gardone per approfondire la mia tesi di laurea su Giuseppe Botta fra gli archivi contenuti nella casa. Sono poi tornato come turista, giornalista e convegnista fino a quando, nel 2008, fui chiamato dal ministro Bondi che mi domandò:” Professore, sarebbe contento di fare il presidente del Vittoriale?”. Ricordo il giorno in cui la mia segretaria mi mise in mano le chiavi dell’intera struttura di cui ora avevo la piena responsabilità.

Cosa ama Lei di d’Annunzio?

Da un lato mi affascina la sua vita, dall’altro la sua straordinaria capacità di libertà. Egli seppe infatti conservare la propria libertà pur nell’ebbrezza. La sua vita rappresenta l’antitesi della vita cristiana: fece del godimento e non della privazione la chiave della felicità. Un quotidiano francese gli dedicò infatti tale epitaffio:” E’ morto un uomo che non solo ha realizzato i propri sogni, ma che ha anche saputo farli sognare agli altri uomini.”

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Quale curiosità le piace particolarmente della Prioria?

La casa di d’Annunzio rappresenta un accumulo di emozioni e sensazioni. Mi piacerebbe molto poter ricreare l’ambiente esatto in cui viveva il Vate ma purtroppo non posso permettermi di spruzzare ogni giorno mezzo litro di profumi ed essenze sulle tende della casa.

Cosa vede in Lei  di d’Annunzio?

A parte il fatto che i calvi si assomigliano tutti non posso dire di essere un genio ma posso anche io vantare innumerevoli donne prima di diventare uno sposo fedelissimo ed un amorevole padre. Mi piace terrorizzare i nemici con la leggenda riguardante il mio nome: in uno dei suoi ultimi scritti d’Annunzio, che dal momento della perdita dell’occhio si riteneva un veggente, si firma Guerri. Sono riuscito a non montarmi la testa nonostante in un luogo come questo sia molto difficile: sarebbe bello aprire di notte i cancelli ed immergermi nella contemplazione del Vittoriale come lo vedeva lui, illuminato solamente dalla luce di una pallida luna.

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LA VISITA ALLA CASA

Dopo lo sfarzo in cui aveva vissuto a Roma, la ricchezza della Capponcina, sulle colline fiorentine, e la bellezza dello chalet di Arcachon, il poeta decise di ritirarsi in uno stravagante ed inatteso isolamento che durò diciassette anni. Felice di aver trovato ciò che tanto cercava, una villa modesta e silenziosa, lontano dal rumore e dalla guerra, d’Annunzio ne parla così:” Il lago ha qualcosa di pudico. S’avvolge in un velo argentino, e lascia vedere qualcuna delle sue grazie rosee. Le nuvole vi si specchiano. A Desenzano l’acqua è zaffiro schietto. La penisola di Sirmione è come una calza di seta bruna ove una donna passa un braccio per rovesciarla mettendo la mano fino al pedule; e la pelle rosea traspare attraverso il tessuto fine…Il lago è di una bellezza improvvisa, indicibile.” La casa appartenuta precedente allo storico dell’arte tedesco Heinrich Thode, scappato allo scoppio del primo conflitto mondiale, diventa ora la più grande opera di d’Annunzio.

Il Comandante cercava una casa dove potessero compiersi le sue due ultime opere: l’Opera Omnia e la testimonianza tangibile della sua vita, il Vittoriale; cercava un luogo dotato di un garage per due macchine, una scuderia per almeno tre cavalli, un buon pianoforte a coda per la pianista veneziana Luisa Baccara, una stanza da bagno, la biancheria e il riscaldamento, un giardino e almeno quattro camere da letto. Quella che comprerà sarà una villa bassa, simile alla casa di un parroco, dotata di trentaquattro stanze, nominate ciascuna dal poeta, in base alla funzione o ad alcune particolarità contenutevi.

Gian Carlo Maroni fu l’architetto artefice di questo “guscio” per la “lumaca” d’Annunzio: insieme al Vate lavorò giorno e notte alla creazione di quest’opera immensa, fatta di pagine su pagine, scalette e antri, balconate e giardini. Aspirava all’eternità, e fece sì che questo luogo nascosto sulle coste del lago di Garda, trasudasse d’Annunzio da tutti i pori: dai pavimenti coperti da pesanti tappeti orientali per attutire ogni rumore, all’atmosfera quasi soffocante di migliaia di oggetti chiusi in spazi piccoli, alle finestre alabastrate per offuscare la luce del giorno. I libri sono ovunque: rivestono le pareti della Sala del Mappamondo, le nicchie della stanza del Giglio, le mensole dell’Officina, persino l’angusto loculo del bagno della Clausura. Dominano inoltre i colori blu e rosso, simbolo prima della città di fiume ed ora del Vittoriale: il rosso è un rimando al sangue, alla violenza, alla potenza ed all’energia; il blu rappresenta l’infinito dell’immenso cielo stellato.

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Si accede alla Prioria tramite un piccolo corridoio con qualche gradino, da qui immediatamente si separano due ali della casa: a sinistra vi è l’Oratorio Dalmata, la sala d’aspetto riservata agli ospiti graditi, molto spesso donne, mentre a destra, nella Stanza del Mascheraio, furono fatti aspettare tutti coloro che non venivano felicemente accolti da d’Annunzio. Mussolini nel maggio 1925 attese lungamente di essere ricevuto, costretto ad osservare uno specchio incastonato nella parete, su cui campeggiava la scritta:” Pensa che sei vetro contro acciaio”.

Seguono la Stanza della Musica, con le sue zucche colorate ad illuminare la sala altrimenti buia e tenebrosa; la Sala del Mappamondo, ossia la grande biblioteca del Vittoriale ove vi sono oggetti appartenuti al condottiero Napoleone e all’interno della quale troneggia un grande mappamondo di carta pergamena. Vi è poi la Zambracca da “zambra”, che in provenzale significa camera; qui d’Annunzio amava mangiare in solitudine, raccolto sui suoi libri, e qui morì, intento alla lettura.

Nella Stanza della Leda, così chiamata in ricordo dell’unione carnale fra Zeus in sembianza di cigno, e la moglie di Tindaro che viene sedotta sulle dolci spoglie di un lago, avvenivano le notti di passione del poeta: sul letto alla francese rivestito da una coperta di seta, regalo della moglie, o sul divano pieno di cuscini, alle pareti motti dai rimandi espliciti, come “Genio et voluptati” o “Per un dixir”. Questo antro è un richiamo all’arte orientale, pura sensualità: ceramiche, idoli, maschere funerarie, sculture e calchi in gesso come quello dello Schiavo Morente michelangiolesco. Prima di giungere in questa stanza le badesse passavano nella Stanza delle marionette, atta alla preparazione, esse indossavano gli abiti dall’etichetta rossa e blu con vergato sopra “Gabriel Nuntius Vestiarius”. All’interno della stanza vi è una scatola contenente i peli pubici delle varie amanti, ricordo di centinaia di prestazioni.

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Sacro e profano si confondono nella Stanza delle Reliquie, ove sono accatastati oggetti sacri di svariate religioni insieme al volante spezzato del motoscafo su cui perse la vita Sir Henry Segrave, il giorno in cui tentò di stabilire il record mondiale di velocità sull’acqua. Sul soffitto il simbolo della Reggenza del Carnaro, il gonfalone in seta rossa e fili d’oro. Non deve stupire questa immensa accozzaglia di oggetti, sono infatti parte della casa-museo di un uomo che poneva su un piedistallo la figura di San Francesco, affiancata alla perfezione del corpo della donna.

Amante del lusso, per lui una necessità ed un diritto, Gabriele d’Annunzio si circonda di oggetti stravaganti ed assolutamente futili che, nelle mani del grande poeta, diventano arte, animandosi quasi attraversati da un soffio vitale che parla del Vate.

Dopo le migliaia di oggetti di ogni genere contenuti all’interno del Bagno Blu si giunge al vero sancta sanctorum di d’Annunzio rappresentato dalla Stanza del Lebbroso: qui il Veggente ha costruito una sorta di cappella privata, dove piangere gli amici o rifugiarsi nei tristi giorni che commemorano la morte della madre Luisa o della grande Eleonora Duse; in preda ad ascesi mistica e furore quasi bacchico, d’Annunzio qui si abbandona all’uso e abuso della cocaina, che diviene dopo l’esperienza fiumana conforto quotidiano. La cocaina gli dava la sensazione e l’ebbrezza di essere di nuovo giovane, e aumentava i suoi insaziabili appetiti sessuali. Eppure il Vate si vergognava di tale dipendenza in quanto la polverina bianca faceva sì ch’egli non potesse proclamare totalmente la propria libertà. “Povero Gabriele, piccolo e indifeso nella sua forza immensa”: gli ultimi anni furono caratterizzati da un patologico bisogno di carnalità, dovuto all’utilizzo sempre maggiore di droga; pur nell’avanzare degli anni e nel decadimento del fisico, d’Annunzio non rinunciò mai al sesso. Eppure si allungavano sempre più le febbri passeggere e i momenti di malumore che lo portavano ad isolarsi per giornate intere nel suo studio, rinvigorito solamente dall’abuso di medicinali e pastiglie di ogni tipo, contenuti all’interno delle Zambracca.

In una commistione di Eros e cibo, il poeta diede notevole importanza anche all’arredamento della moderna cucina, dotata di innovative tecnologie; qui regnava la cuoca, addetta al soddisfacimento del fine palato del poeta. I golosi manicaretti venivano serviti nella Stanza della Cheli, qui, in mezzo ai “gioielli da tavola”, troneggiava una tartaruga il cui guscio era appartenuto ad un animale morto al Vittoriale per un’indigestione di tuberose. Il poeta aveva pensato di porla qui a monito per i commensali. La tavola era apparecchiata per undici: d’Annunzio voleva infatti rifarsi alla tradizione dell’Ultima Cena, ma escludendo il traditore Giuda.

Attraversando l’intrico di camere e stanzette, il visitatore vede di fronte a sé una mano rossa, insanguinata, effigiata sullo stipite di una porta: si entra nella Stanza del Monco, adibita alla corrispondenza. Qui il Comandante si riservava il gravoso compito di rispondere alla fitta corrispondenza ricevuta quotidianamente. Tornando indietro e chinandosi con umiltà per attraversare una piccola porta si è condotti all’Officina, l’ufficio di questo operaio della scrittura. E’ una stanza ampia e chiara, lontana dall’oscurità del resto dell’opprimente susseguirsi di stanze: è il rifugio del lavoro, compiuto solamente dopo aver coperto con un velo il busto della tanto amata Eleonora Duse.

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Luisa ed Amélie abitavano quattro stanze che componevano la Clausura, chiusa al pubblico in quanto non rispecchia in alcun modo la raffinatezza e l’eccesso del gusto che ha arredato il resto della casa. Domina il colore verde in queste stanze crudelmente attigue: in tal modo le due donne che rivaleggiavano per il medesimo oggetto di desiderio erano obbligate ad assistere alle urla di godimento o alle lacrime dell’altra, ora vittoriose ora sconfitte.

La visita si conclude con l’ala della casa che il Comandante non riuscì mai ad abitare: il cosiddetto Schifamondo, pulito ed essenziale, così diverso dal resto della Prioria.

Con grande cura il Vate dispose ogni cosa: oltre che all’interno anche all’esterno della casa. Il giardino si estende per nove ettari di verde, all’interno di questo comune prato all’inglese vi sono però elementi che raccontano la vita del poeta: incastonata all’interno di una collina che si affaccia sul lago la prua di una nave, trasportata da Roma e rimontata pezzo per pezzo. Si tratta dell’incrociatore Puglia, simbolo in ferro della potenza virile del Comandante. Più in alto vi è il MAS che lo aveva accompagnata nelle imprese belliche e, in posizione sopraelevata, il mausoleo bianco sulla cui cima riposa questo Genio.

IL VATEGABRIELE (7)

“Dovete sapere che il mio cervello dipende direttamente dalla mia lussuria al punto che io posso godere con il cervello”. Così d’Annunzio parlava di sé: si riteneva un principe rinascimentale e, nella sua visione delle cose, la sensualità era cosa necessaria per fare arte. Era un abile amante e corteggiatore, capace di sedurre ogni donna e trasformarla, per un fugace istante, in un essere celeste. Amava piacere, e plasmava la propria natura caratteriale in base a chi si trovava davanti, quasi fosse un prestigiatore dell’amore.

Era suo uso ribattezzare le donne con nomi altisonanti e significativi scelti da lui stesso, quasi esse rinascessero a nuova vita dall’incontro con lui. Era come una dispotica ape regina attorno alla quale si accalcano centinaia di amanti; se lui poteva passare da grembo a grembo addirittura durante una stessa notte, le sue amanti erano invece a lui vincolate con cieca fedeltà, era a loro assolutamente proibito incontrare altri uomini, non contemplava neppure l’esistenza di altre virilità.

La sua passione era puro sadomasochismo: in una notte di passione con Letizia De Felici, trasformò il suo corpo in un tableau vivant che rappresentava, con i graffi e i morsi dell’amante, un sofferente San Sebastiano. La sua filosofia consisteva nel fiaccare il corpo con orge e veglie notturne, per poi ubriacarsi e colmare nel vino il vuoto della stanchezza. Riuscì a far divenire realtà le fantasie di molti uomini, andando a letto contemporaneamente con più donne, anche dalla preferenza lesbica, amando le più mature quando ancora giovane e le adolescenti quando anziano. Il sesso era per lui un’arte atta al soddisfacimento del Principino, ed, in quanto tale, esigeva un’accurata preparazione: disegnava egli stesso la biancheria che avrebbe dovuto, seppur per poco, coprire il corpo nudo dell’amante di turno: Aélis si occupava personalmente della vestizione e unzione delle badesse, profumate e pettinate a dovere prima dell’incontro con “la catapulta perpetua”. Prima dell’atto in sé le donne dovevano dar prova della propria femminilità e capacità di seduzione celebrale prima che carnale, erano artiste su un palcoscenico dalle sembianze di un letto. E’ eccitato dalla vita sottile ma anche dalle braccia poderose, dai capelli corti e dalle chiome sinuose, dall’eleganza e dall’aggressività; tante erano le donne che si affollavano davanti ai cancelli della dimora che Gabriele era obbligato ad una triste cernita che gli costava un grande sacrificio.

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Eppure solamente tre furono le donne che lo accompagnarono durante la lunga permanenza sul lago che si protese fino alla morte: la principessa, la pianista e la governante.

Dopo la separazione con la moglie i rapporti rimasero comunque molto stretti, basati su un affetto ed una complicità che, con altre, Ariel non aveva saputo trovare. Ella era stata l’unica a capire l’animo del marito, capace di amare solamente sé stesso. Alla morte di Gabriele fu l’unica a poter accedere alle stanze del Vittoriale; rimase per tutta la vita la vera principessa di casa d’Annunzio: ogni qualvolta ella giungesse a Gardone, le altre badesse dovevano andarsene, per lasciare spazio alla regina della vita del poeta.

Aélis, questo il nome d’arte conferito da d’Annunzio ad Amélie Mazoyer, fu la cameriera ma anche la geisha che aveva il compito di assecondare i capricci del Maestro; con lei pareva quasi che il servitium amoris fosse ribaltato, era lei ad accudire il Vate e a far sì che il suo corpo bianco e delicato fosse sempre perfettamente deterso e curato.

Ella scatenò spesso la gelosia della terza grande presenza: la Signora del Vittoriale, Luisa. Dopo il primo anno di convivenza con il Vate si verificò un avvenimento che fece sì che la passione nei confronti della donna si spegnesse: il 15 agosto del 1922 d’Annunzio cadde dal balcone della stanza della Musica; il fatto venne ribattezzato “Il Volo dell’Arcangelo”. Luisa Baccara stava suonando e nella stanza oltre al Vate vi era solamente sua sorella minore, nei confronti della quale Gabriele manifestava già una certa attenzione. Probabilmente a motivo della folle gelosia che abitava l’animo della veneziana, ella si pensa abbia gettato l’amato giù dalla finestra in preda ad un impeto d’ira. Da questo momento in poi sarà bandita dalla Stanza della Leda e relegata al ruolo di padrona di casa: la sua morbosa gelosia nei confronti della mediocre domestica francese crebbe sempre più, Luisa non comprendeva infatti come tale Genio potesse apprezzare i servigi di una simile infima creatura.

Non ci si aspetta che quest’uomo invincibile, prototipo del forte e virile condottiero, finisca la sua vita con un senso di solitudine ed un incolmabile vuoto interiore: si accorge infatti di non essere stato in grado di amare altri se non sé stesso, e ora, sul finire della vita, si sente solo sull’orlo di un nero baratro. Non ha nessuno che lo accompagni in questo cammino verso l’Aldilà, solamente lui con i suoi libri e le sue ricchezze che, però, non danno la felicità.

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