“La prima sensazione è di estraneità, d’indifferenza mista a stupore; subito dopo mi assale un impellente bisogno di muovermi. Ci provo, compiendo uno sforzo sovrumano, non ci riesco: non perché mi senta legato, ma perché non ho un corpo da muovere. Di me è rimasto un cervello che galleggia nel vuoto e da qualche parte una bocca, bloccata da qualcosa che mi impedisce di usarla, di gridare. Tutto il resto è scomparso, si è dissolto!”
Un caso assurdo quanto singolare che di certo non si dimentica. Aveva 30 anni Lucio Silvetti, tutt’oggi anestesista all’ospedale Binaghi di Cagliari, quando si trovò svegliò durante l’operazione mentre era paziente in sala operatoria.
Racconta infatti: “Il panico provato in quei momenti è asettico, senza sudore, senza batticuore, senza affanno. Quell’episodio mi ha condizionato nella professione: ancora oggi il primo pensiero è se il paziente che addormento senta o no”
Un recente sondaggio condotto e realizzato in Gran Bretagna ha rilevato dati ancor diversi: nel 2011, solo un paziente su 15 mila operati ha riferito al risveglio di ricordare almeno qualcosa. Ma a domanda diretta: “Ricordi qualcosa?” un paziente su cinquecento risponde di sì.
Non certamente svegli. A metà strada tra la veglia e l’oscuro dell’incoscienza. Jaideep Pandit, anestesista al St. John College di Oxford, e coordinatore del sondaggio inglese, lo spiega con l’idea che esista una specie di “terzo stato” della coscienza, nel quale possono rifugiarsi i pazienti sottoposti ad anestesia totale durante gli interventi chirurgici.
Secondo l’esperto medico, in una piccola minoranza di casi lo stato di completa incoscienza del paziente sotto i ferri, in seguito alla somministrazione di anestetici, non arriva mai. “Lo chiamo ‘disanestesia’- ha spiegato Pandit- uno stato in cui il paziente è consapevole dell’intervento ma non è né conscio né inconscio”.
La possibilità di una terza dimensione della coscienza, secondo Pandit, deriva innanzitutto dal fatto che nessuno può ritenersi mai completamente sicuro che i farmaci somministrati abbiano avuto l’effetto sperato ed è molto difficile riuscire ad individuare il farmaco giusto e la quantità idonea ad ogni paziente.
L’anestesista ha fatto ricorso all’antica tecnica utilizzata del laccio emostatico avvolto all’avambraccio per paralizzarlo ed evitare miorilassanti. Un terzo dei pazienti apparentemente inconsci durante l’intervento ha mosso le dita del braccio libero. “Questi pazienti sono, a tutti gli effetti, in uno stato d’incoscienza- spiega Pandit- ma sono in uno stato in cui possono rispondere ad alcuni stimoli esterni, come i comandi verbali”. Un terzo livello di coscienza, appunto.
Nonostante sia una pratica diffusa in tutti gli ospedali del mondo ormai da più di 160 anni, c’è chi guarda ancora a questi procedimenti come fenomeni carichi di mistero. “Ho sempre trovato incredibile che ci si possa svegliare dall’anestesia”, racconta Alexander Proekt, “Non tanto che si torni a sbattere gli occhi o a camminare, quanto piuttosto che si riesca a divenire nuovamente se stessi. Ho sempre pensato che dovesse esserci un qualche tipo di processo o percorso che dica al cervello come fare”.