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Scuola sì, ma anche buona?

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Una rivoluzione concettuale” l’ha definita il premier Matteo Renzi. In Parlamento non se ne è ancora discusso, ma è già evidente il fermento che sta creando. A schierarsi sono anche le varie testate nazionali.

La Repubblica pare essere fiduciosa e la considera un’evidente inversione di tendenza. Così come anche il Corriere della Sera. A sbilanciarsi di più è La Stampa, che non si limita ai timidi giudizi “difficile e rischiosa”, ma con sicurezza e ardore si slancia in commenti quali “sono proprio le intenzioni, confuse e tese sostanzialmente a suscitare demagogicamente un consenso facile e immediato, a rischiare di scontrarsi con una realtà molto complessa”. Libero preferisce soffermarsi sugli errori e gli strafalcioni del testo. Appaiono tutte valutazioni moderate rispetto allo stentoreo “il disegno di legge è inemendabile” sostenuto da Il fatto quotidiano.

Il soggetto del bersagliamento è la cosiddetta “Buona Scuola”. Approvato dal Consilio dei Ministri il 12 marzo 2015, il ddl è destinato ad introdurre finalmente nell’ istituzione scolastica italiana termini come merito, fondi o assunzioni. Il Primo Ministro si dichiara ottimista anche nella corsa contro il tempo nella quale si trova coinvolto: lo scopo è partire già a settembre 2015. I rinvii, stop e spostamenti sono stati numerosi. Ma questa sembra essere la volta “buona”.

 

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Non può certo mancare la reazione di chi è punto sul vivo dalla straordinaria rivoluzione che pare essere più soggetta ad un’eterna procrastinazione che ad un imminente avvento. Sono insegnanti e studenti. Tra i primi, i più hanno intrapreso la rotta della diffidenza. Non li si può certo biasimare: sono anni che, mortificati da stipendi miseri (per i pochi eletti che quello stipendio ce l’hanno) non sentono parlare che di tagli e precarietà sempre crescente. Hanno bisogno di concretezza. C’è poi, soprattutto tra gli studenti, chi preferisce l’indifferenza. Per concludere con coloro che, animati dall’anelito ad una palpabile, reale rivoluzione, hanno aderito alle proteste che hanno coinvolto 40 piazze italiane con una partecipazione totale di 50 mila ragazzi.

Le manifestazioni hanno avuto luogo anche Torino, dove ad incoraggiare i giovani è un gesto emblematico e tutt’altro che violento: il lancio di matite e penne alla sede del ministero in corso Vittorio. In tutta Italia le proteste si sono rivelate pacifiche. Forse per l’esigua partecipazione: a prendere parte alla protesta torinese sono infatti solo 200 giovani. Sarà che con il naufragio di qualsivoglia forma di cultura politica e civica anche il consenso è andato con gli anni scemando. O forse sarà colpa dell’assenza di rappresentatività di chi si erge a paladino degli studenti. Ma senza soffermarsi sull’analisi del flop di numerose manifestazioni, il loro messaggio condiviso risulta esplicito: chi vive la scuola, rivendica il proprio diritto di essere al centro. Troppe sono e sono state le promesse aleatorie. Le buone intenzioni del riformatore di turno. Le parole suggestive. La “generazione che non si arrende” si schiera ora contro la “scuola di classe” e chiede, con il lancio di gomme per cancellare, l’annullamento della Buona Scuola.

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Simbolico è il cartello che apre il corteo a Milano: “Expo+Jobs Act+ Buona Scuola= un futuro di m…”. Carico di significato anche il Flash Mob di clown che hanno reclamato a Roma una “scuola che sia buona per davvero”.

Ecco però concretamente cosa propone il disegno di legge che si sta sforzando di realizzare quella che è stata più volte accusata di essere la scuola-azienda. Tra le parole chiave della proposta spiccano libertà e, nonostante sembri incredibile che l’opprimente apparato burocratico allenti la presa, autonomia. Valori imprescindibili nella società contemporanea.

Ma non unanimemente condivisibili se concentrati nelle mani delle mani di singoli individui: nel caso del tanto agognato disegno, i presidi. Definiti dal primo ministro “allenatori” della scuola, saranno loro a formare la propria squadra. Sceglieranno i docenti più adatti all’interno di albi territoriali. Assegneranno tali docenti in base alle necessità. Potranno inoltre individuare un gruppo di 3 insegnanti che li aiuteranno nell’organizzazione della vita scolastica. Sempre loro si occuperanno della valutazione del lavoro degli insegnanti, premiando i più meritevoli con un bonus annuale. Esatto, anche gli insegnanti saranno valutati. I criteri con cui procederanno le valutazioni terranno conto di contesto, risorse, esiti e processi.

Lo scopo è fornire un riconoscimento economico a chi si impegnerà di più in quanto utilizzo di metodi didattici innovativi, contributo al miglioramento complessivo della scuola e qualità dell’insegnamento. Le modalità attraverso cui sarà garantita la trasparenza del giudizio non sono ancora chiare. Cioè, chi valuterà l’operato dei presidi? Il rischio è di imbattersi nella discrezionalità e arbitrarietà di coloro che potrebbero diventare i tiranni della scuola.

 

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Altra colonna portante del progetto è la prevista assunzione di centomila docenti già da settembre 2015, subito seguita dal ritorno ai concorsi nel 2016. Rispetto ai 148mila annunciati a settembre 2014, risultano un numero piuttosto modesto. Toccherà accontentarsi e sperare che non vengano ulteriormente dimezzati. È tuttavia da apprezzare la chiusura della questione delle graduatorie, che favorisco in tal modo l’accessoalle assunzioni ad insegnanti giovani e qualificati. Restano gli scatti di anzianità e sono introdotte le “card del prof”, che prevedono 500 euro annuali di aggiornamento culturale (per cinema, libri, mostre…). Cifre a due zeri fanno girare la testa ad un mondo, quello dell’istruzione, che con la Gelmini ha sentito parlare di tagli a nove, di zeri. All’occhio allenato di qualche matematico e a quelli più attenti di migliaia di professori, 500 euro risultano però irrisori. Sono infatti circa 40 euro al mese, che si dissolvono in men che non si dica con l’acquisto di un biglietto teatrale, per esempio.

La rivoluzione tocca anche gli studenti. Rafforzate o ristabilite numerose materie tra cui inglese, arte, che torna ad essere obbligatoria in tutti i percorsi liceali dalla prima classe e diritto, anch’esso obbligatorio nel primo biennio di tutte le scuole. Non poteva mancare economia, introdotta invece nel triennio. Da una parte si vuole coltivare lo sguardo al futuro dei giovani. Dall’altro li si vuole ri-educare al bello attraverso il gusto per la scoperta, e loro passioni.

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La scuola di oggi non può più limitarsi alla trasmissione di saperi. In una società in cui non si fa in tempo ad assimilare una conoscenza che essa viene ad essere bersagliata da migliaia di ulteriori impulsi, le nozioni passano in secondo piano. Giocano un ruolo insostituibile le competenze, la progettualità, la flessibilità mentale. Nonché i rapporti con il mondo del lavoro e i criteri per interpretare l’esistenza. La Buona Scuola ha pensato anche a questo con il “curriculum dello studente” a fini orientativi e l’alternanza scuola-lavoro. Quest’ultima, iniziativa attinta all’originale progetto tedesco, affronta di petto il problema della disoccupazione giovanile e della dispersione scolastica, tasso che ha toccato i vertici del 17%. Stage e tirocini, il cui esito potrà influenzare l’esame di maturità, occuperanno almeno 200 ore nell’ultimo triennio liceale.

Nel disegno di legge non poteva assolutamente mancare una sezione dedicata al digitale. Ma non si tratta più di LIM o qualsiasi altro dispendioso strumento, tranquilli. Si vuole invece indirizzare gli studenti, sin dall’infanzia, ad un uso consapevole, sicuro e con finalità culturali degli strumenti tecnologici a disposizione, tra cui internet pare essere quello più allettante e ingannevole. A tale fine verrà quindi introdotto lo studio di cittadinanza digitale ed educazione ai media.

Ecco infine uno dei temi più dibattuti degli ultimi mesi: gli sgravi per le paritarie, superiori escluse. Viene confermata la detraibilità delle rette sostenute da famiglie i cui figli frequentano una scuola paritaria dell’infanzia o del primo ciclo. Le scuole cattoliche non appaiono tanto entusiaste delle misure discriminatorie. A parità di doveri rispetto alla scuola pubblica, devono corrispondere uguali diritti. Difficilmente si supererà il concetto di “scuola di classe”, se la parità scolastica non verrà raggiunta a livello innanzitutto economico. Il dibattito è ampiamente aperto riguardo anche alle quantità: rimane un’incognita il reale stanziamento di fondi per le paritarie. La discriminante da cui emergerà se lo Stato si stia realmente muovendo per garantire una scuola equa o se sta andando avanti a sferzate di “contentini”.

Come è evidente, numerosi sono gli aspetti su cui la discussione è aperta. È stata opportunamente intrapresa la via dello strumento legislativo, cioè del disegno, invece del decreto legge per favorire l’aperto confronto. Solo 10 dei 12 punti in cui la riforma è stata riassunta sono stati presentati da Renzi il 12 marzo.

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Di fianco ad essi, rimangono ben più numerosi i punti di domanda. Una cosa è certa: la scuola di cui l’Italia ha ora bisogno non è certo sloganistica. Non c’è spazio per dilettantismi. Lo slogan della rivoluzione è efficace a livello mediatico. Deve però essere accompagnato dalla concreta messa in atto di quelle proposte che diventerebbero altrimenti improvvisate e demagogiche, nonché foriere di un’ondata di delusione difronte alla quale persino le incredibili qualità decisionistiche del premier risulterebbero spaesate. Quello in cui ci si è addentrati è un campo minato. Ma era inevitabile imbattersi, presto o tardi, in quello che è il “tallone d’Achille” dell’Italia o meglio, uno dei numerosi “talloni d’Achille“ italiani. Le dicerie sullo scarso livello culturale di chi rappresenta il Bel Paese si erano ormai insinuate perfino nei rioni di periferia.

D’altronde non si può pensare altro di una classe politica la cui considerazione per istruzione, università e ricerca pareva essere nulla. Ma con quella che il premier definisce “la riforma principale per il nostro Paese”, di cui è convinto e orgoglioso, pare evidente la riscoperta dell’assioma “l’istruzione è il grande motore dello sviluppo”, personale e collettivo. È arrivato il tempo della responsabilità. Da parte dei cittadini, chiamati a contribuire attraverso donazioni al miglioramento del sistema scolastico. E da parte di chi i cittadini li rappresenta. La palla passa ora al Parlamento, che dovrà dare una forma concreta e precisa delle linee snelle e semplici del disegno di legge. Gli ingredienti ci sono tutti, dall’offerta formativa all’edilizia scolastica, non trascurando l’offerta di percorsi personalizzati. La speranze è che non si perda di vista, come spessissimo accade, il fine: la persona. L’istruzione, la cui via non è ancora chiaramente delineata, deve valorizzare il suo talento e le sue attitudini, offrigli un’opportunità d’incontro con la cultura e soprattutto formarla umanamente e civilmente.

 

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