Con il presidio di linguisti come Beccaria, Patota e Serianni abbiamo viaggiato nel passato attraverso l’etimologia. Facoltà che custodisce le tracce antiche degli uomini, nonostante i luoghi e le persone di cui vogliamo raccontare non esistano più. Abbiamo scoperto il fascino e i misteri delle parole mediante i libri “Parola” di Serianni e “Bravo”di Patota, entrambi presentati da un sapiente Beccaria.
Gian Luigi Beccaria
Secondo Serianni la parola ha diverse sfumature. Può essere un semplice soffio o suono ma anche corposa e pesante. Rimane nel tempo. E’ persistente. Simbolizza la nostra appartenenza. Alcune parole sono segnate come nostre, ad esempio “carosello” o “Azzurri”. Le parole ci ricordano alcune ere, come “capriccio” o “stravagante” o “meraviglioso” ci rimandano all’epoca barocca. Le parole date all’uomo non per dire ma per non dire: l’ironia. Le parole che non esistono mai da sole. Le parole che non rappresentano sinonimi perfetti, come “dimenticare” e “scordare”.
Abbiamo bisogno di capire il passato per capire noi stessi
Patota nel suo libro analizza la storia della parola “bravo” dall’origine ai giorni nostri. Oggi ha significato positivo che rimanda al concetto di onesto, abile, capace. Ma in origine non era così: riferito a persone significava “crudele” e “feroce”. Un esempio si ha in un libro del ‘300 in cui viene riportato “unde brave” con valenza di onde agitate. La negatività di questa parola deriva da “barbaro” con significato di rozzo e incivile (termine con il quale gli antichi Greci identificavano i non Greci). La prima volta in cui “bravo” viene utilizzato con il significato attuale si trova nella “Locandiera” di Goldoni. L’internazionalità di questa parola è dovuta al suo uso nel melodramma. Si potrebbe quasi definire come testimonianza delle qualità buone e cattive degli Italiani. il vizio di non apprezzare la nostra ricchezza linguistica l’abbiamo da sempre. Nel 1800 gli Italiani pronunciavano “bravo” alla francese, nonostante quest’ultimi l’avessero “presa in prestito” dalla nostra lingua.
L’etimologia è dunque la prova che le parole ci seguono ovunque noi andiamo.