Il grande blu, unico, immobile e mobile, Distruttore e Creatore di specie, di genti, di sogni. Della sua nascita se ne potrebbe parlare per anni e mai si arriverebbe ad una conclusione. Della sua morte è impossibile anche soltanto immaginare. Si assorbe e si costringe tanto da non accorgersene. Si rigenera con le lacrime del cielo. Molti hanno provato ad imbrigliarlo, a catturarlo, a coercirlo ed è inutile ricordare che nessuno vi è mai riuscito. Forse in un’unica occasione: tanti anni or sono una popolazione scappava dalla fame e dal dolore e allora chiese aiuto al loro Dio, il quale riuscì ad aprire e a chiudere le acque, comandando ciò che comandabile non è.
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Interessante constatare come quelle stesse caratteristiche che si affibbiano alla divinità si possano facilmente estendere all’immensa distesa azzurra in egual misura. Dio é Creatore e in tal figura ci viene proposto, da Torquato Tasso inizialmente e da Foscolo poi, il liquido amniotico che con i suoi cullanti movimenti rinforza le speranze di vita delle creature e consegna alla natura la possibilità di compiere il suo corso di rigenerazione.
Ma al divino, fin dai tempi del più giovane Dioniso, si associano le caratteristiche più duali e complementari e quindi l’oceano diventa Distruttore, di uomini e di speranze. De Amicis nel lontano 1882 decide di dedicargli una poesia, toccante, scritta da occhi che le onde sono stati in grado di amare (emozione a dir poco difficile da provare) ma che hanno visto la catastrofica potenza del divino e che concludono in ultimo verso apostrofandolo con le parole “O sterminato cimitero azzurrο.” e poi più alcunché.
“Sterminato” perché i colori si miscelano, formano un’ intrinseca unione, copulano in un abbraccio finché non c’è bisogno del sole calante per capire dove inizia il cielo e dove finisce il ponto, quale blu è pronto ad accettare l’arancione e quale blu é ormai deciso ad abbandonarlo. Ci vorrebbero ore, giorni, mesi ed anni per poter esplorare la più piccola parte di quell’immensità. E dopo una vita sprecata a percorrere l’impossibile vi sarebbe più soltanto la rassegnazione. Chi se non il sommo poeta poteva arrivare a spiegare con una tale finezza il concetto dell’incapacità di vivere in un “mondo sanza gente”? Il suo Ulisse è stato dunque un uomo che ha provato nell’ultimo momento della sua vita a conoscere Dio e per questa sua ossessiva volontà non l’ha mai conosciuto.
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Ma d’altronde quello spazio in movimento, come una vera e propria divinità, dev’essere essere accolto per poter essere compreso. Al contrario, se compresso, si ribella e fa scaturire la sua più cupa natura. Questo dimostra quanto importante sia non solo la reverenza verso i turbinosi movimenti marini ma anche il rispetto che molto spesso la dovrebbe precede. Lo capì Ernest Hemingway dopo una vita spesa sulle coste e lo descrisse nel suo testo più famoso, che per onor di cronaca gli valse un Pulitzer e un Nobel. Santiago, il vecchio marinaio, protagonista di un’angosciosa battuta di pesca, si accorge sempre di più dell’importanza che deve avere la concordia tra l’infinito e il finito. “Mi stai uccidendo, pesce, pensò il vecchio. Ma hai il diritto di farlo. Non ho mai visto nulla di grande e bello e calmo e nobile come te, fratello. Vieni a uccidermi.” Hemingway permette al suo personaggio di rendersi conto del suo valore di fianco a quella grandezza, di quanto non solo fosse minuscolo, ma di quanto fosse parte di esso.
Perché gli uomini senza il mare non sopravvivono, quantomeno per la sete di bellezza universale.