di Ludovica Veneziano
Il 10 maggio l’Italia assiste davanti agli schermi delle proprie case, ancora in lock-down, all’arrivo di Silvia Romano, dopo 18 mesi di sequestro tra Kenya e Somalia. La giovane ventiquattrenne viene accolta a Ciampino non solo dai suoi famigliari, colmi di gioia e lacrime, ma anche dal Premier Giuseppe Conte, che aveva annunciato il suo ritorno via social il giorno precedente, e dal Ministro degli Esteri Giuseppe Di Maio.
La commozione e la felicità di vedere una giovane italiana di nuovo a casa si tramutano in odio e disprezzo quando, pochi minuti dopo essere atterrata, Silvia comunica di essersi convertita all’Islam e di aver cambiato nome in Aisha. La ragazza, infatti, presentandosi già solo indossando una veste islamica di colore verde, crea subito perplessità e scalpore in tutti coloro che la stanno guardando. Il dubbio è se la scelta di convertirsi sia stata personale oppure dettata dalle assurde circostanze che ha vissuto per un anno e mezzo.
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La conferma arriva dopo l’audizione dai pm, durata più di quattro ore, quando la ventiquattrenne afferma di essere sempre stata trattata con rispetto e umanità da parte dei rapinatori, e che la sua decisione di praticare la fede musulmana è stata libera, senza nessun tipo di costrizione. La scintilla sembra infatti essere scoccata quando a metà prigionia, in lei iniziarono a sorgere molteplici domande: sul perché proprio lei si trovasse lì in questo luogo e non qualcun’altra, e se fosse tutto legato al caso. Tutti questi interrogatori portarono in lei, inconsciamente, a un “percorso di ricerca interiore” che trovò risposta nella lettura del Corano, che, a detta sua, è un libro finalizzato al bene e alla purezza.
In poco tempo i social iniziano così a divampare di meme, video e descrizioni seguiti da commenti aberranti e insulti di ogni tipo.
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Se Silvia solo si fosse presentata con un crocifisso in mano e la Bibbia dall’altra, tutto questo accanimento mediatico nei suoi confronti non sarebbe sicuramente successo. La sua scelta per quanto contestabile e a tratti assurda, dovrebbe essere almeno rispettata per il coraggio che c’è di fondo nel prendere tale decisione, e in quanto essere umano e nostra concittadina. Il dolore, la disperazione nel non sapere dove si trova la propria figlia, sorella, amica finalmente è stato soppiantato da gioia e felicità, emozioni che purtroppo altre famiglie non avranno mai l’opportunità di provare. Un esempio lampante è quello di Giulio Regeni, dove la sua famiglia, dal 2016, sta cercando giustizia è verità sull’omicidio di un giovane studente italiano ucciso durante il suo dottorato in Egitto. Il senso etico e civile tendono subito a scemare fino a scomparire, quando si tratta di queste tematiche, facendo emergere cattiveria ed ignoranza rendendo il nostro Paese una nazione becera e ottusa, agli occhi non solo di chi ci vive ma anche di tutto il mondo.