• venerdì , 19 Aprile 2024

Dolce legalità Gabbata

Sole, caldo e tanta calca nelle strade. In questi giorni Milano sembra la stessa di sempre: turisti cinesi che fotografano compulsivamente le vetrine, ricche signore rifatte che si aggirano per le vie del centro e code chilometriche davanti ai portali (chiamarle porte sarebbe riduttivo) dei negozi più in voga. Milano “la stessa di sempre” non è:  uno dei suoi “cuori pulsanti” ha smesso volontariamente di battere per tre giorni per protesta, o meglio per indignazione.

Vetrina di D&G in via della Spiga

Vetrina di D&G in via della Spiga

Il colosso della moda italiana e internazionale D&G ha ritenuto opportuno chiudere i nove negozi monomarca di Milano per tre giorni, in seguito ad un commento, ritenuto di cattivo gusto, dell’assessore D’Alfonso. Il membro della giunta Pisapia, in seguito ad un dibattito che mirava ad affittare spazi per sfilate al suddetto marchio, aveva apostrofato i due stilisti come evasori fiscali. «Non bisognerebbe concedere spazi simbolo della città a personaggi famosi e marchi vip che hanno rimediato condanne per fatti particolarmente odiosi in questo momento di crisi economica come l’evasione fiscale». L’accusa non è infondata: D&G è stato infatti condannato in primo grado per aver frodato il fisco per una somma pari a duecento milioni di euro; un assessore, rappresentante dei cittadini, non può però improvvisarsi pubblico ministero e avanzare gratuitamente pesanti accuse. Oggi Debora, donna della Milano Bene, in cerca di un vestitino; Dimitri, ricco possidente russo in vacanza in Italia e Mohamed, emiro arabo in visita a Milano per affari, passeggiando per via della Spiga, non possono ammirare, all’interno delle vetrine, le stravaganti creazioni dei due stilisti: dietro ogni vetro appare infatti un cartello “chiuso per indignazione, closed for indignation”. Sicuramente le parole di D’Alfonso sono state avventate e inutilmente offensive, ma il comportamento di Stefano e Domenico (le iniziali dei cui cognomi formano il simbolo del famoso marchio) è stato inaccettabile. La chiusura dei nove negozi è paragonabile ad uno schiaffo dato da un padre alla figlioletta indifesa, inerme ed in difficoltà. In periodo di crisi, come quello odierno, chiudere le serrande è un plateale gesto di indifferenza nei confronti delle decine di piccoli negozi costretti a chiudere a causa della recessione. Il cartello appeso nelle boutique dovrebbe essere riciclato da tutti i negozianti per il comportamento del loro concorrente D&G, essi però non se lo possono permettere: uno scontrino in più o in meno può cambiare le sorti della loro attività. Altro gesto raffinato è stato il tweet di uno dei due fashion designer “Comune fai schifo e pietà”; forse l’autore del post si è dimenticato di esser stato condannato (in primo grado, ma condannato) per frode fiscale. Un forte sostegno è pervenuto e da Flavio Briatore che, purtroppo, non aveva nessun locale da chiudere per solidarietà e da Roberto Maroni che, in modo diplomatico e indiretto, non ha espresso il suo dissenso per il gesto della Firma. 

Risposta degli animalisti alla chiusura del marchio.

Risposta degli animalisti alla chiusura temporanea del marchio.

Gli italiani stanno sempre più perdendo il senso della misura, anche e soprattutto nel parlare, e del buon senso (solo la settimana scorsa il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli ha paragonato il ministro Kyenge ad una scimmia). Ancora più importante: sta scomparendo la sostanza; tutti sono attenti alla forma e pronti a rimproverare coloro che non la rispettano, ma nessuno più si cura della sostanza, vero quid, come ci ricorda Aristotlele, ponendola come “prima categoria”. Tutta questa diatriba si è infatti trasformata in pubblicità gratuita per D&G, assai più efficace degli spot televisivi in cui appaiono modelli e modelle molto ben retribuiti. La sostanza della faccenda, ovvero il fatto che il marchio debba allo Stato una somma esorbitante, è passata in secondo piano: nessuno ormai ritiene che pagare le tasse sia un dovere, ma un passatempo e il senso della legalità più non ci appartiene.

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