• giovedì , 28 Marzo 2024

L'ineluttabile deriva

“This is the rhythm of the night: all night, oh yeah. The rhythm of the night, this is the rhythm of my life” cantava, nel lontano 1993, Corona (non Fabrizio, lui fortunatamente ancora non c’era, anzi probabilmente si trattava dell’unico periodo in cui fosse occupato a lavorare) un progetto musicale come tanti, oramai scomparso.

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Questa canzone, “The rhythm of the night” (per gli anglofoni: “Il ritmo della notte”), è forse una delle più pregnanti, non solo dell’ eurodance tipica degli anni ’90, ma anche del “mood” festaiolo e spensierato che si viveva vent’anni fa. Ora invece, quel mondo così gaio, ci appare più lontano che mai: “The rhythm of the night” si ascolta solo negli stripclub e i cinepanettoni, allora film-manifesto dell’animo malandrino dell’italiano medio, ora sono solo poster sbiaditi di vite mai veramente vissute. Gli anni ’90 sembravano una perenne festa, destinata a non finire mai e, pertanto, pareva inutile investire sul futuro.

“Futuro? Quale futuro? Il mondo tanto finisce nel 2000, chi se ne frega” avrebbe risposto qualcuno, tutti gli altri erano troppo accecati da un apparente futuro radioso, trainato dal progresso inarrestabile, in grado di permetterci un tenore di vita degno dell’Aga Khan. L’anno scorso, invece, nonostante nessuno fosse realmente convinto nè malfidente della veridicità della profezia Maya, la risposta sarebbe stata univoca per tutti: “Futuro? Senta, per favore, non mi secchi che devo andare a pagare l’IMU”.

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Il cambio repentino di mentalità è lampante, anche Flavia Vento potrebbe intuirlo, eppure se noi oggi abbiamo imparato la parola “spread” è per colpa nostra. Infatti negli anni ’90 non sono stati fatti gli investimenti nè, tantomeno, le riforme strutturali capaci di favorire una crescita che già allora andava affievolendosi sempre di più e che ormai da anni è presente solo con un inquietante meno davanti. Le politiche da adottare per la crescita, in ogni caso, sono sempre le stesse (sempre che non siate ancora seriamente convinti che l’anarchia possa risolvere ogni qual tipo di problema) quindi manteniamo la calma e concentriamoci su questa ricetta ben più infallibile di quella della torta alle pere cotte della nonna.

Occorrono esattamente tante dosi di interventi nella ricerca e nello sviluppo quante di abbassamento delle tasse (una pressione fiscale al 54% non è ammissibile), il tutto condito da un miglioramento dell’istruzione (perchè permetterebbe di avere un capitale umano ben più elevato) e da una maggiore qualità delle istituzioni (ergo: il 25% di compatrioti che hanno votato per il Movimento 5 stelle tale concetto ce l’hanno ben chiaro, “in ostruzionismo veritas“). Queste fantomatiche politiche sono alquanto semplici, o meglio, lo sarebbero, se solo qualche esemplare di governante del suolo italico si degnasse mai di seguirle (specialmente chi, queste cose le insegna all’università, vero “Rigor Montis“?).

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Però, come diceva Mike Bongiorno: “Allegria!”, perchè la colpa di tutto ciò non è solo nostra, ma è anche di un mostro succhia-risorse a 28 teste chiamato Unione Europea, la cui mente teutonica non perde occasione per buttarci sempre più giù. Gli esempi delle politiche anti-italiche sono sterminati e vanno dall’abolizione della pesca delle telline al no agli eurobond (se di unione si deve inevitabilmente trattare, che almeno ci siano norme ben precise a livello comunitario per poter affrontare anche la speculazione, sempre che non ci siano interessi ben precisi per attaccare il Bel Paese).

In ogni caso, oggi siamo costretti a provare tutte le soluzioni immaginabili, come in un sudoku impossibile, pur di non superare il tetto imposto dall’Ue del debito sul PIL, oltretutto venendo trattati come le pecore nere d’Europa, specie apparentemente rara e poco prelibata. Pur non volendo abbandonarsi ad un eccessivo passatismo, però sorge spontaneo rimembrare quando poco più di vent’anni fa la Germania ovest, di fatto, si comprò la DDR e accollò la spesa alla CEE, che chiuse il 1992 con elevati disavanzi*.

Secondo alcune stime recenti i costi totali della riunificazione tedesca ammonterebbero a circa 1.400 miliardi di marchi. La Germania Federale poteva contare su un ottimo tessuto industriale, basato sulla chimica, l’industria pesante, l’automotive, ma malgrado l’indubbia caratteristica di affidabilità e resistenza i prodotti tedeschi risultavano ancora molto costosi rispetto ad analoghi prodotti delle industrie italiane, francesi, spagnole, che potendo appoggiare le vendite su una moneta più debole del marco, erano sicuramente più avvantaggiate nelle esportazioni (Italia e Spagna in primis).

Per fare un po’ di cassa al cancelliere Kohl non restò che puntare tutto sul processo di unificazione economica e monetaria della comunità europea, già avviato per altri motivi in quegli stessi anni dalla Francia del presidente Francois Mitterand e dal primo commissario europeo Jacques Delors, a cui era stato affidato il compito di studiare un programma e un piano di progressiva unificazione delle monete nazionali in un’unica moneta: l’euro. Dopo un’iniziale accoglienza tiepida di questo progetto, la Germania di Kohl diventò improvvisamente un fautore entusiasta della nascente Unione Monetaria Europea, che non aveva mai subito una tale velocizzazione nel suo compimento fino ad allora. Paesi più stabili economicamente e politicamente come Gran Bretagna, Svezia e Norvegia non pensarono neanche per un istante ad unirsi a questa grande ammucchiata, in cui era molto prevedibile che prima o dopo la grande Germania avrebbe fatto un massacro.

Insomma, a distanza di vent’anni ci ritroviamo a dover pensare al domani più assennatamente che mai, ma allora dov’eravamo?

*Fonte: Dichiarazione di Mario Monti del 1993 al Corriere della sera

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