Il miraggio della terra desiderata appariva ai loro occhi sempre più nitido; l’attesa così palpabile dopo moltissime ore di viaggio in mare si stava consumando. Il calore dei corpi, madidi di sudore, la calca, i respiri affannati. Sarebbero presto giunti in Italia, pensavano: un piccolo tratto e avrebbero calpestato quell’agognato suolo.
Un’idea: farsi sentire, farsi vedere, riconoscere per il loro eroico tentativo, nonché farsi aiutare.
La coperta accesa: in un momento il fuoco divampa, e le fiamme avvolgono l’intera imbarcazione.
Saranno notati solo il giorno seguente, sotto lo spietato sole della costa di Lampedusa, non più come uomini, bensì come cadaveri, e pure su tutti i titoli di giornale. Erano 500 i profughi, partiti dalle coste dell’Africa sub-sahariana; ora sono 155 i superstiti, 130 i deceduti, gli altri dispersi.
Il numero delle vittime cresce inesorabilmente: il ritmo è insostenibile, sia per la Guardia Costiera che per la nostra sensibilità.
Un particolare struggente è stato, per i pescatori locali, contemplare dal proprio peschereccio, assieme al sole che sorge, un mare tinto di rosso; la disperazione di occhi dai quali non si cancellerà mai più l’orribile immagine.
L’Italia intera riflette su una tragedia umana di entità tale da essere dichiarata Lutto Nazionale, benché sia solo episodio ultimo di una lunga serie.
Non basta più rendere omaggio alle vittime osservando qualche minuto di silenzio, è vana l’arida ricerca del solito, inutile capro espiatorio.
Occorre qualcosa che esuli dal semplice rispetto, componente che svanisce in fretta dalla labile memoria umana.
Quegli uomini, quelle donne e quei bambini hanno intrapreso la fuga da una realtà limitante che li costringeva: la loro disperazione è stata tale da imbarcarsi addirittura senza saper nuotare.