• martedì , 23 Aprile 2024

Il mio viaggiare è la mia vita

Entra con disinvoltura: cappotto, giornale sotto braccio, sguardo basso e sereno. È Domenico Quirico. Giornalista inviato per La Stampa, liberato l’8 settembre dopo cinque mesi di prigionia presso i gruppi di ribelli in Siria. Conosciamo parte della sua esperienza grazie al libro “Il paese del Male” scritto a quattro mani con Pierre Piccinin da Prata (inviato belga per Le Monde), compagno di prigionia. E’ una grande testimonianza la sua, una confessione di chi non si vergogna di mettere a nudo la propria essenza. Ci parla di Dio, di Male, di paura, di giornalismo, di democrazia, di libertà con una schiettezza invidiabile. Due ore per trasmettere messaggi sinceri, che troppe volte nascondiamo per la paura di ammettere la verità. E per due ore lo ascoltiamo, rapiti dai contenuti e dal modo in cui li espone. La scrittura è il modo migliore per comunicare ciò che si pensa, ma una storia di questa portata merita di essere raccontata a voce.

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Qual è la prerogativa di un giornalista?

“Raccontare il dolore umano. Un giornalista ha il dovere di riferire ciò che accade dove gli uomini soffrono e diventano protagonisti della Storia. Può esistere un mondo senza giornali? Certo. Ma fino a quando qualcuno sarà chiamato ad avere la responsabilità morale di rendere coscienti gli altri di ciò che accade, i giornali non hanno solo diritto, ma anche il dovere di esistere.”

Come si può raccontare il dolore?

“Per raccontare la sofferenza bisogna condividere il male, la speranza, l’angoscia di chi soffre.”

Quirico l’ha fatto: glielo si legge negli occhi e nelle parole.

“Il dolore non si può stringere o prendere a manciate: è tanto delicato, tanto fragile da poter essere sfiorato solo con la punta delle dita. La maggior parte di chi racconta della Siria non ha mai visto con i propri occhi il paese e ciò che vi accade. Penso che nessuno abbia il diritto di scrivere della sofferenza altrui senza provarla. Il mio compito è creare commozione in chi legge. La commozione è diventata per noi occidentali qualcosa di cui vergognarsi. Ma non è così: essa rappresenta il passaggio fondamentale dall’esperienza alla coscienza.”

Dalle pagine del libro e dalle sue parole emerge fortemente la passione che mette nella sua professione, ma c’è mai stato un attimo di debolezza in cui ha pensato che non avrebbe mai voluto fare questo mestiere?

“Io sono un viaggiatore. Non un viaggiatore alla Phileas Fogg che percorre il giro del mondo nell’attesa di tornare a casa. Il mio viaggio è ciò che accade all’interno del percorso. E’ come il viaggio di Ulisse. Quando Ulisse torna a casa non è la stessa persona di quando è partito. Io attraverso il tempo e lo spazio di altri uomini, vivo attraverso le piccole parti di esistenza che vedo nel mondo. Il mio viaggiare è la mia vita.

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Qual è il rapporto, inevitabile nel suo mestiere, con la Morte?

“Negli ultimi tre anni in Siria sono morte 130.000 persone. Morti non combattenti, che anzi hanno perso la vita mentre facevano il possibile per evitare la guerra. Ma a me dei numeri non importa niente. Ognuna di quelle persone dovrebbe suscitare la stessa commozione. Per fare un esempio, il genocidio in Ruanda è stato il fenomeno che ha cambiato profondamente la mia vita nel rapporto con gli altri uomini. Noi giornalisti abbiamo raccontato il seguito di quell’orrore, il post-genocidio, perchè siamo arrivati troppo tardi. La vera essenza della crudeltà del genocidio non sono stati tanto i numeri (1 milione di persone, che sono comunque un quinto della popolazione) quanto il modus operandi di quella strage. Ogni persona è stata uccisa singolarmente. Vittima e carnefice. Uno di fronte all’altro. Questa è la vera tragedia.”

Cosa rappresenta per lei l’esperienza in Siria?

La Siria rappresenta il fallimento del mio mestiere.

Ci stupiamo. L’abbiamo dipinto come l’eroe moderno, che scampa alla morte in un paese in cui è impensabile continuare a vivere. Ma continua:

“È il fallimento di tutti coloro che come me hanno il compito di trasmettere ciò che accade facendolo diventare coscienza comune. Io ho la responsabilità morale di raccontare questi rapporti umani per evitare che altri uomini soffrano. La Siria non è diventata un problema mondiale. La Siria non è entrata nella coscienza comune. Nessuno grida ‘Basta con la tragedia siriana!’. Quindi ho fallito.”

C’è convinzione in quello che dice. C’è quasi il rimorso per non essere riuscito a pieno nel suo compito. C’è la consapevolezza di essere piccolo, di essere un inciso rispetto al grande racconto della Storia che in questo momento si sta scrivendo nel mondo.

“Parlando solo della mia esperienza, però, farei l’atto più antigiornalistico che si possa fare: parlare di sé. La mia prigionia è stata una parentesi, un piccolo dramma concluso in ‘lieto fine’ rispetto al Dramma che ha luogo ogni giorno. Ho deciso tuttavia di scrivere un libro perché era l’unico modo per uscire dall’obbligo di raccontare la mia storia privata trasformandola in qualcosa di oggettivo.”

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Il suo libro si intitola “Il paese del Male”: la Siria è il paese del Male per esteso?

“Sono venuto a contatto con due tipologie diversi di ribelli: i primi mi hanno maltrattato e mi hanno trattato come se fossi una merce da scambiare. Agivano, sapendo di commettere del Male, per avidità. Il più lercio dei sentimenti umani. Mi mentivano in continuazione, dicendomi che mi avrebbero liberato il giorno seguente. Lo facevano solo per godere nel vedere la scintilla della speranza accendersi inevitabilmente negli occhi di chi ogni giorno spera di riottenere la libertà e poi spegnersi miseramente ogni volta. Il secondo gruppo di ribelli era diverso, con loro ho potuto parlare ed essere più umano. La Siria è il paese del Male perchè se non si fa il Male, si muore.

Qual è il suo atteggiamento nei confronti dei sequestratori?

“Il mio rapporto con quelle persone può prendere due svolte a seconda della mia scelta: il perdono o l’odio. Perdonarli è decisamente difficile. Mi hanno rubato il tempo, la cosa più preziosa che potessero togliermi. Hanno sottratto alla mia vita cinque mesi che non riavrò più idietro. E’ molto più facile odiare, è la via più semplice. Ma non li odio. Uno dei ribelli una volta mi ha detto, prima che fossi liberato: ‘Qua siamo tutti prigionieri nella sofferenza, ma tu ora te ne vai, mentre noi restiamo qui.’ Inoltre, io sapevo benissimo dove mi trovavo, il vero ostaggio era la mia famiglia, che non aveva idea di dove fossi. “

Qual è invece il suo rapporto con Pierre Piccinin?

“Era indispensabile avere qualcuno con cui abbattere la solitudine. Il nostro comune avversario era il tempo. Ogni secondo passato in quella stanza era una montagna da scalare per raggiungere il secondo successivo. Per ritrovare la nostra essenza in mezzo a quella disumanità abbiamo iniziato a raccontarci le favole che ci raccontavano da bambini, come Pollicino, per esempio. Parlavamo di Ulisse, e gli ho raccontato dell’Ulisse dantesco, che lui non conosceva. Ho commesso un errore nel raccontarlo, perchè non ricordavo perfettamente i passi della Divina Commedia (appena sono tornato in Italia sono andato a cercarli e ho telefonato a Pierre per correggere le mie imprecisioni!). Il rapporto con Pierre va visto con i sentimenti che si provano alla fine di un lungo matrimonio: o ci saremmo detestati, o saremmo diventati fratelli. La scelta non solo di scrivere il libro insieme, ma addirittura di voler intrecciare le nostre testimonianze non è una scelta editoriale, ma la rivelazione del nostro rapporto.”

Come si conciliavano i due sentimenti contrastanti di paura e speranza durante la prigionia?

“La mia era una situazione di immobilità. 24 ore al giorno dentro una stanza chiusa. L’immagine che accosto all’idea di prigionia ora è una porta chiusa. Una porta che non si apre mai se non per buttare dentro qualche avanzo di cibo per non farti morire di fame. La porta rimane chiusa e sai che un giorno si aprirà definitivamente: o per liberarti, o per ucciderti. Dentro a quella stanza valevo quanto una merce. Ho imparato l’umiltà delle piccole cose, ma in quella condizione disperata avevo bisogno di riaprire quella porta a costo della vita. Avevo bisogno di riprovare la banalità di camminare, di correre, di guardare fuori da una finestra…”

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In un passo del libro scrive:

“Da quando è iniziata la mia prigionia, non mi sono mai sentito così vicino nella pietà e nel dolore a un altro essere umano […] per la prima volta io non guardo l’Altro, il sofferente, l’escluso, per raccontarlo con gli occhi da testimone a cui la compassione non basterà mai per colmare il fossato che lo divide da loro. Per la prima volta io sono l’Altro.”

Come ci si sente ad essere “l’Altro”?

“Ho fatto un’esperienza in quanto inviato.”

Sottolinea il termine inviato, ormai sostituito nel linguaggio giornalistico con il termine addetto alla scrittura, il quale non rispecchia decisamente la portata di tale mestiere.

“Ho attraversato il Mediterraneo in un barcone con gli emigranti tunisini, per raccontare la loro impresa. E’ stato quel fatto a cambiarmi. Dopo quell’esperienza non posso avere più pregiudizi. Non posso pormi nell’Altro credendo di non esserlo, senza pormi in quella condizione permanente di umiliazione, senza sentirmi il povero, il piccolo.”

Nonostante tutto lei dice di non aver perso la fede, cosa l’ha aiutata a mantenere saldo questo rapporto con Dio?

“Il nemico più temibile in una situazione come quella che ho vissuto è la solitudine. Il senso di abbandono. Se fossi stato da solo probabilmente non sarei qui ora. Mentre ero lì, la mia più grande paura era quella di essere stato dimenticato da tutti, di essere sparito. Ma sei veramente solo, nel momento in cui hai l’impressione che Dio ti abbia dimenticato. Chi crede non è mai solo. Il mio rapporto con Dio? Non è un distributore presso il quale ritirare una grazia, ma una continua presenza e un continuo darsi.”

Come è cambiato invece il suo rapporto con l’Islam?

“Io non sono un esperto di Islam e posso parlare solo nel modo più obiettivo possibile di ciò che vedo. Volete sapere cos’è l’Islam? Entrate in una Moschea qualsiasi di venerdì e ascoltate l’energia della gente che prega. Il rapporto che c’è con Dio e con le cose ricorda la grande esperienza cristiana dei tempi di Cluny, o del barocco seicentesco, e che ora non esiste più. Il mio rapporto è cambiato per via di un gruppo di estremi praticanti. Ero con loro quando adempivano con passione alla loro fede: li vedevo uno gioire della sofferenza di altri esseri umani, li vedevo compiere il Male consapevolmente e poi pregare cinque volte al giorno. E mi sorgeva spontaneo chiedermi per che cosa pregassero. Cosa chiedevano al loro Dio? Mi chiedevo se il rapporto con Dio si esaurisse nel momento in cui finivano di celebrare un rito. Era solo questa la loro fede? Una serie di riti da rispettare? Rimane ancora un dubbio aperto per me. Questo è comunque l’Islam, quello della Jihad. Non quello che i saggi islamisti sulla Rive Gauche, sul Boulevard Saint Germain, ci dicono quando li paghiamo per farci avere una visione dell’Islam che si basa sulla tolleranza, su Voltaire, su ciò che vogliamo sentirci dire. Ma che non corrisponde a ciò che è veramente.”

Come noi Occidentali ci prendiamo la libertà di intervenire nelle questioni medio-orientali?

“Per quanto riguarda la Libia, l’Inghilterra e la Francia avevano bisogno di petrolio, e la chiave del problema era ancora una volta la questione economica. Nella vicenda siriana, l’affare era più grave e più rischioso: bisognava mettere in conto diverse perdite. Senza contare che la grande alleata della Siria è la Russia: la grande temibile minaccia nucleare. Nel contesto generale della Primavera Araba noi occidentali abbiamo perso il diritto di dare lezioni di democrazia. Abbiamo stretto le mani a troppi dittatori e quando questi stavano per crollare ci siamo tirati indietro. I ragazzi che nascono nel clima delle rivoluzioni sono istruiti, i regimi hanno dato loro una grande educazione, azione che si è rivelata poi controproducente. Sanno benissimo qual è la situazione in Europa, leggono i giornali, sentono cosa accade. Sono venuti qui per vedere il modello democratico europeo che idolatriamo tanto e che due terzi del mondo non conosce. Sono venuti a vedere se questo Paradiso democratico funzionava davvero, e quando sono arrivati abbiamo chiuso le porte, “privatizzando” la democrazia. Questo è un errore politico millenario: rifiutare ciò che diciamo di costituire, rifiutare la democrazia che, in quanto europei, abbiamo inventato. E loro si vendicano usando il modello islamista, perchè è l’unica identità che rimane loro, dopo che abbiamo negato loro la nostra.”

Cos’è una rivoluzione?

“Ho attraversato le rivoluzioni della Primavera Araba e sono di recente tornato da Kiev, dove ha luogo il primo accenno di rivoluzione in una Europa che non vive questo fenomeno. Le rivoluzioni sono passioni. Fare una rivoluzione significa prendere un tempo diverso della propria vita. Avere nelle mani la possibilità di costruire ogni giorno il proprio tempo.”

Quirico ci lascia con una testimonianza che è lezione di vita e di morale. Ci ha raccontato quell’essere uomo al quale ora siamo un po’ più consci di aderire.

 

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