• martedì , 19 Marzo 2024

Scrivere è condividere

“Ho imparato a scalare il secondo”.

Domenico Quirico, liberato l’8 settembre del 2013 dopo 152 lunghissimi giorni in Siria, nel Paese del Male, nella conferenza di venerdì a Valsalice ha molto sottolineato questo aspetto.

In cinque mesi di sofferenza, in cinque mesi di lontananza bisogna scalare il secondo. Bisogna viverlo con fatica, nella speranza che passi. Per vedere e ricercare dietro l’oscurità di una attesa una porta aperta. Quel secondo rubato, sottratto alla vita. Quei 152 giorni che inevitabilmente non torneranno più. Spariti.

L’amicizia, l’umanità imperdibile, la fede l’hanno aiutato a compiere la scalata del tempo.

L’Ave Maria dell’infanzia, imparata presto e presto dimenticata si è riaffacciata alle sue labbra, in modo ineluttabile.

E passo dopo passo ha riscoperto la bellezza di un rapporto con Dio; un legame non basato sul chiedere e conseguenzialmente ricevere, ma sull’attesa, sull’esercizio di pazienza, sull’umiltà di riconoscersi creatura.

Umiltà che lo ha cambiato, perché subito dopo la prigionia ha ritrovato la bellezza della libertà, della quotidianità, di tutto ciò che normalmente non ti sorprende per abitudine.

L’amicizia con Pierre Piccinin de la Prata è stato un altro grande aiuto per non sentirsi soli. Nei discorsi, nelle paure e sofferenze condivise e vissute in due, nelle fiabe.

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Pollicino con i suoi pezzettini di pane seminati ovunque e con il suo finale incompiuto e dimenticato è servito a scalare il secondo, briciola dopo briciola.

E allo stesso modo l’Ulisse dantesco, con i suoi versi e la sua curiositas ha risollevato l’animo umano dalla disumanità generale, dalle barbarie quotidiane. Dall’umiliazione.

“Fatti non foste per vivere come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. E i versi immortali del Divin Poeta nello stesso modo in cui hanno ricordato di essere uomini alle vittime della Shoah, si sono rivelati più che utili nella prigionia. Non i numeri, non la scienza, ma la conoscenza sono venuti in aiuto per sopravvivere, per non perdere la speranza.

Scalare il secondo, però, porta inevitabilmente a condividere il secondo.

Lo dice con chiarezza, all’inizio, non appena prende la parola, descrivendolo come il compito del giornalista.

Giornalista che quindi ha il dovere di descrivere la Storia, ma non da lontano, impassibile, in un caldo ufficio.

Ha il dovere di vivere la storia per parlarne, per dare un nome, una vita e un volto alle persone che muoiono nelle lotte civili. Che muoiono sotto un regime, che soffrono desiderando la libertà.

Tutto ciò non può che renderlo consapevole della sua responsabilità e della possibilità di rispondere alla domanda “dove eri tu quando soffrivo?” con una chiara e consapevole dichiarazione di amore: “io c’ero.”

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La responsabilità risiede nella necessità di creare compassione nel lettore.

Cum patire, patire insieme.

Parola che forse noi occidentali non riusciamo più a comprendere, dato che insensibili, sfiorati da articoli che gridano la sofferenza di un popolo, voltiamo la pagina del giornale. Sono drammi troppo grandi perché i nostri cuori ne possano soffrire, e preferiamo disperarci e lottare per beghe politiche e sociali che non hanno nemmeno un lascito dell’importanza di ciò che, impassibili, tralasciamo.

“Io ho fallito” dice Domenico Quirico. “Ho fallito, perché voi, voi non vi siete commossi. Perché l’Italia, l’Europa non è intervenuta e non ha compreso la grandezza di un conflitto come quello Siriano.”

L’Europa, l’Italia; noi siamo sempre più narcisisti. Incantati dal nostro mondo democraticamente funzionante. Fermi a rimirarci davanti ad uno specchio d’acqua, per sembrare sempre più belli. Mentre un’Eco, sempre più innamorata e muta, scompare.

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Siamo atrofizzati nel nostro io, mentre un Islam che non perde la sua fede, infiamma i cuori per una guerra santa.

“Non esiste l’Islam moderato” afferma Quirico, “è solo una nostra invenzione, frutto di una fantasia”. Quella fede incomprensibile nel suo pregare con ardore e allo stesso tempo nel compiere il male, con la certezza di essere nel giusto, soppianta i partiti più democratici e occidentalizzati.

E spontaneamente ci si chiede il perché della vittoria dei partiti musulmani.

La risposta ricerchiamola nella nostra “apertura” agli immigrati, nel sentimento che abbiamo lasciato nei cuori di giovani acculturati, che, dopo immense fatiche per raggiungere la patria del loro sogno, la Democrazia, si sono visti rimandare a casa, prigionieri di una situazione che non vogliono vivere. Delusi. Arrabbiati.

Siamo un “paradiso circondato da filo spinato”. Inarrivabile. Chiuso. Odiato.

“Ahi serva Italia, di dolore ostello!” Ahi, Europa! L’odio ha causato sempre altra sofferenza e noi non saremo mai, non siamo, invincibili; nonostante l’apparenza.

Uomini “considerate la vostra semenza”: commuovetevi

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