• giovedì , 28 Marzo 2024

Mamma Sicurezza

[box] Proteggono la città con quella cura che hanno per i loro figli. Torino è in buone mani: ai vertici della pubblica sicurezza sono arrivate anche le donne. Prima tappa di un reportage per provare a conoscerle. [/box]

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Occhio alla testa: se mai vi trovaste ad un corteo in Valsusa o ad una manifestazione in centro, fate attenzione alla testa. Non la vostra: osservate quelle dei poliziotti. In mezzo ai caschi dei reparti speciali potreste trovare i capelli biondi di una signora.  Rosanna Lavezzaro, vice questore aggiunto e dirigente dell’Ufficio Immigrazione, impugna la radio e comanda le operazioni: da quella voce ferma dipendono i movimenti di decine di uomini armati di tutto punto.

Chiamatela, se volete, “mamma sicurezza”: anche la Polizia, corpo tradizionalmente azzurro, si è colorita di rosa. In cinquant’anni di pari opportunità si sono invertite le tendenze: oggi le divise femminili crescono molto più di quelle maschili e in vent’anni sono raddoppiate (nel ’90 erano 7 mila, nel 2010 15 mila, mentre gli uomini sono passati da 84 a 89 mila, dati Polizia di Stato). Le donne col distintivo rivestono soprattutto ruoli tecnico-scientifici, grazie ad una scolarizzazione media superiore a quella dei colleghi: il 16% è laureato e il 67 % diplomato, contro i rispettivi 5% e 59 %. Sono impiegate in ogni settore (tra poco potranno accedere anche al Reparto Mobile, ovvero la ex Celere, l’ultima rimasta esclusivamente maschile) ma solo una su cento arriva in alto. Le “primo dirigenti” come Lavezzaro (il suo grado corrisponde a quello di colonnello delle Forze Armate) rappresentano appena il 5% del totale dei parigrado: perle rare.

La questura più che uno scrigno è un casermone. Il palazzo è monumentale: all’interno soltanto colori sbiaditi, vecchi armadioni di metallo, una povertà che è il polso del Paese. Lo Stato non ha fondi e la buona notizia è che in corso Vinzaglio non sprecano niente: gli uffici sono spogli ma la sala di controllo del sistema di telecamere urbane è un prodigio della tecnologia e ha radicalmente migliorato la protezione dei cittadini.

Tutto torna: è lo stile del capo. Sobrietà, efficienza, determinazione: fatica e dignità. Nella stanza di Lavezzaro ci sono alcune foto di famiglia, discrete; piccole icone bizantineggianti, un paio di ritratti in divisa, menzioni di merito, cimeli e giornali. All’attaccapanni un piumino che sa di No-Tav: guai a dimenticarselo, non si sa mai. Anche d’estate: le proteste al cantiere si accendono, ma in montagna fa freddo come d’inverno, la notte… e quante volte le è toccato quel turno.

La porta è sempre aperta ed è un via-vai di agenti: il gigante che chiede permesso timoroso, il commissario diligente che riferisce prima di andare a casa, chi deposita fascicoli e chi vuole soltanto una firma. Ognuno riceve ascolto e una parola gentile, amichevole. Nell’aria una sensazione di rispetto umano e professionale; dietro la scrivania una presenza autorevole. Entra anche la giovane assistente in fibrillazione per gli ultimi imprevisti: si dà un gran da fare con il suo smartphone. Il vecchio cellulare di servizio di Lavezzaro (che invece non si è per niente scomposta) sta insieme con lo scotch e va ricaricato dopo poche ore di telefonate. Infatti si è spento per l’ennesima volta: “Forse adesso mi convinco e lo cambio”. Forse.

Capo Polizia 21.9.2013 059

Com’è andata oggi?
Abbiamo accolto un centinaio di profughi che avevano sbagliato destinazione e li abbiamo accompagnati alla Croce Rossa di Settimo. Poi un rimpatrio coattivo di un detenuto che ci ha impegnati parecchio, per il resto ordinaria amministrazione: permessi di soggiorno, qualche fermo, controlli, assistenza, espulsioni e accompagnamenti. Al nostro sportello arrivano oltre 600 utenti stranieri al giorno.

Giornatina tranquilla, dunque.
Non è sempre così, ma il ritmo è pesante. Normalmente passo nove o dieci ore qui. Poi ci sono le urgenze e le questioni di gestione dell’ordine pubblico.

Quanti siete in Questura?
Circa 2200, 3400 se comprendiamo anche le specialità, ovvero la polizia ferroviaria, di frontiera e postale. Le donne sono il 22%. Siamo lievemente sottodimensionati, ma ci stiamo riorganizzando per sfruttare al meglio le risorse.

Come siete strutturati?
La gerarchia conta il Questore, che rappresenta la massima espressione dell’autorità provinciale di pubblica sicurezza, l’Ufficio di Gabinetto, che è il cuore pulsante dell’intera macchina, e i dirigenti delle sei divisioni in cui è articolata. La mia è l’Immigrazione, poi ci sono la Digos (Divisione Investigazioni ed Operazioni Speciali), l’Ufficio di Prevenzione Generale (il 113 e le volanti), la Squadra Mobile che cura l’investigazione, l’Amministrativa e Sociale, che rilascia passaporti, documenti, autorizzazioni in tema di armi, esplosivi e vigilanza privata. Infine l’Anticrimine, che si occupa dell’applicazione delle misure di prevenzione (aggiungiamo anche la Scientifica, che però è un comparto a sè). A rotazione ognuno dei responsabili di questi settori, ad eccezione del capo di gabinetto, si occupa dell’ordine pubblico.

Anche lei? Lo fa volentieri?
Sì mi piace moltissimo, credo anzi sia la mia vera vocazione. Provengo da 9 anni di Digos e conosco l’altra faccia del problema. Diciamo che il mio passato mi dà sostegno.

Un passato da 007…
La Digos provvede alla sicurezza interna ed esterna dello Stato. Lavora sull’ordine pubblico, sui reati politici e sulla prevenzione, specialmente attraverso la raccolta di informazioni. Ho imparato l’arte di cogliere i segnali e prevedere le situazioni. Nella gestione della “piazza” il tempismo è tutto.

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In che cosa consiste il suo compito?
L’obiettivo è garantire ad ognuno la possibilità di manifestare, evitando danni a persone e cose. Spesso in manifestazioni e contromanifestazioni c’è il rischio di derive violente ed è per questo che interveniamo con i reparti mobili: dirigo il servizio e favorisco il dialogo con la gente. Si cerca sempre di venire incontro alle persone, capire le esigenze e il malessere.

La crisi ha inasprito le proteste?
Ne ha aumentato il numero e i partecipanti. Oggi ci capita di trovarci davanti a nuove categorie di lavoratori: sono strangolati dalla congiuntura economica, non hanno mai scioperato prima e adesso vanno in piazza per la disperazione. Ci sono richieste ancora più sensibilità e comprensione.

Una donna in borghese in mezzo agli scudi dei celerini fa una certa impressione.
Un po’ di intuito femminile mi aiuta. In questo mestiere serve grande velocità: bisogna analizzare, interpretare e agire in pochi minuti, nella consapevolezza che le tue scelte saranno messe sotto la lente di ingrandimento e che dovrai essere pronta a sostenerle e se il caso giustificarle. Una carica ritardata di tre o quattro minuti può avere conseguenze disastrose: non c’è tempo per le esitazioni. Bisogna essere dei decisionisti ed in questo l’esperienza è di grande aiuto.

Sono cose che si possono imparare?
Credo che l’attitudine a risolvere problemi complessi come quelli di ordine pubblico sia abbastanza innata. La si può certamente affinare, ma l’atteggiamento personale resta un punto di partenza fondamentale.

Le capita di avere paura? Al G8 di Genova o sotto i sassi dei no-Tav…
Molto raramente. Il mio compito è mantenere la calma e la lucidità e valutare con equilibrio quello che succede. Ma la  “paura” ha un vantaggio: è quella che preserva te e i tuoi uomini. Non bisogna dimenticarselo.

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Venite spesso presi di mira. Come riuscite a resistere?
Con professionalità e grande autocontrollo. Siamo il primo volto dello Stato che il cittadino incontra: paghiamo per i fallimenti altrui. Il conto è salato: insulti, uova, uova con vernice… non battiamo ciglio. Quando arrivano pietre, petardi o addirittura le bombe carta dobbiamo reagire: non possiamo permettere che qualcuno si faccia male.

E tutta questa pazienza, come la allenate nei giovani?
Il Ministero dell’Interno ha investito molto su una corretta formazione del personale. Le nuove leve sono ben preparate: occorre coinvolgerle e motivarle, spiegando loro la finalità del servizio e le potenziali criticità. Ed in questo credo che le donne siano favorite, avendo una propensione naturale al lavoro di gruppo…

Quando caricate?
Quando non ci sono più soluzioni di nessun altro tipo e tutti gli strumenti di mediazione si sono rivelati inefficaci. Ordinare una carica è sempre una soluzione estrema e sconveniente per entrambe le parti. Specialmente per la Polizia che deve poi spiegare come sono andate le cose: per tutelare agenti e civili stiamo sperimentando delle telecamere da inserire sull’equipaggiamento degli agenti. Sarà più facile ricostruire le dinamiche di contatto con la folla, con la speranza di limitare al massimo sterili strumentalizzazioni dell’operato delle forze dell’ordine.

Torino è una città pericolosa?
A livello di ordine pubblico è probabilmente la più complicata d’Italia: negli ultimi anni la Tav ha saldato realtà eterogenee e nella lotta contro un nemico comune si sono moltiplicate le forze anti-sistema. Anche l’emergenza abitativa ha assunto proporzioni ragguardevoli e preoccupanti.

Mediamente quanti sono gli estremisti?
Certo la maggioranza dei manifestanti è pacifica, ma quando il gruppetto dei violenti si scatena qualcuno si fa trascinare. E in un attimo si vìolano le leggi.

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Come va con gli studenti?
Di solito c’è al massimo un 20% che conosce il significato politico delle rivendicazioni avanzate nel corteo. Tutti gli altri si accodano per imitazione e qualcuno va dietro ai più agitati mettendo in pericolo i compagni. A quel punto interveniamo noi. Può capitare che dobbiamo anche entrare nell’Università: sono casi rari (e gravi) e si verificano solo dopo un confronto con il rettore.

Che ricordi ha della sua scuola?
Uno su tutti: l’anno di liceo all’estero. Andai nel Michigan, tornai con una buona conoscenza della lingua, ma soprattutto con la vocazione: fui ospite dello “sceriffo” della cittadina dove abitavo e così scoppiò la scintilla per la Polizia. Poi studiai Scienze Politiche e pochi mesi dopo la laurea – era il 1988 – uscì il concorso per commissari: lo superai al primo colpo, diventando il vice commissario più giovane in Italia.

I primi passi da poliziotta?
Ho studiato all’Istituto superiore di Polizia per nove mesi e nel 1990 sono stata assegnata al Commissariato Barriera Nizza. I commissariati sono come delle piccole questure disseminate sul territorio: quelli cittadini si chiamano sezionali, gli altri sono “distaccati” (ne abbiamo solo due, Ivrea e Bardonecchia). Il mio aveva giurisdizione su San Salvario.

Quartiere difficile?
Sì. Sono stati gli anni più formativi e movimentati della mia vita: non avendo ancora impegni familiari mi dedicavo completamente all’attività esterna. Passavo almeno tre notti a settimana fuori con il personale della squadra di polizia giudiziaria: ho avuto ottimi maestri ed ho cercato di assorbire il massimo. Dopo poco fui trasferita alla Digos e dal 2002 conduco l’Ufficio Immigrazione.

La aspettano anni duri…
Già oggi il tema è delicatissimo. La Polizia si sta attrezzando: la Digos ha potenziato molto gli studi sull’integralismo e la Squadra Mobile ha istituito una sezione per la criminalità straniera. Il mondo ci dà nuovi stimoli e ci chiede di cambiare. Guai a restare indietro: l’immigrazione dev’essere affrontata in modo oculato, rispettoso delle diversità e lungimirante. Solo così potremmo vincere la sfida più difficile ma anche più stimolante del nostro secolo: un’integrazione reale e pacifica.

Twitter @luciacaretti

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