di Lorenzo Giustetto
Il tema della mancanza di cultura in Italia trattato in un’ode alla memoria di Dante.
Sulla tomba di Dante
che si trova in Ravenna
Perché per le genti dell’italio paese,
Che l’austre cultura tornino a compulsare;
E parar si debban le sorti lese
Dell’urna sacra a te, tuo etterno lare,
Ove l’astio de le tristi genti
Sovverte il desio della funerea arca.
S’acerban per fin le più alte menti,
Mentre la delusa vita ancor par parca,
Che di cultura ansa non più è pregna,
Ma di becer e profane villanerie
E d’una gioventù di princìpi indegna,
Non conscia di sue somme genealogie!
Infatti è lor interesse or ch’a ciò lassa,
D’una maona ch’allagasi a prua,
Lor criterio sol guarda e passa,
Non memor d’immensa memoria sua.
E a’ volti i ceppi già son sconosciuti,
Seppur si vegga il guardo d’un arguto,
D’ideali che stramazzan omai battuti,
Men vien d’interesse un solo minuto.
Antica pietra ed epitaffio latino,
Che de’ toscan coglie, tosto, invidia,
Mentre di Ravenna orgoglia ‘l cittadino
E di Firenze accresce l’accidia.
Ma ben d’un tempo fè di man baratto,
L’onor e volontà di Carlo francese,
Gretta urbe or pentita del peccato fatto.
L’epistola disse ben di quell’offese
Ed a Beatrice l’addetto recato
Perdoni supplicanti non fur sufficienti!
Se tal cantava d’industria e fato,
Ben or conseguenzia le miser sue genti.
Ma or ch’annunzia la tacita squilla?
Ricoperse di motriglia il ricordo,
Smuove lor non più dimor tranquilla
E getta al soffio lontan l’ultimo bordo.
Un pugno di suolo sol va sul cimelio,
O copre de l’urna tutto l’involcro;
Perché anche lor spirto, senza criterio,
Fuggirebbe berciando dal suo sepolcro.
Che vien lamentando l’abbietto?
Chi di vergogna colmo farà venia?
E far verb’ei potrà costretto?
Cert’ei sarà a permaner intra moenia?
E ben nulla andrà a stordire
Quiete celata che computa ‘l languore.
Teco, o patrio, torcersi ed avvilire
Senz’intragir dell’arte del cultore
E collera! industria reo bilioso.
Altr’or che quel vien di meno
D’un amor di patria ch’è incestuoso
E ferite la Madre frange sovra ‘l seno.
Ve’ or che lagrimi, ve’ or che perisci;
Ed or pel sangue, ed or per proli vuote
Di colpe e malanni sanar esperisci,
Non or canti come poetar si puote!
D’un tempo reina, or bordello,
Albergo di pubblico dominio.
Or, patria mia, recati ‘l fardello
E nulla serve lamentar ‘l latrocinio!
Oh, italic’amor, o cari,
Che questa virtute detta vi sproni
A solcar su l’onde questi mari
E a troncar le catene de’ padroni,
In ogni petto infiammi! e torni,
Misericordia, o prole,
Di glorie omai son passati i giorni
Ove si temea la terra per la mole,
Or cotanto affanno si spregia
Ed acqua bagna le lor guance,
Col gladio in su la fronte sfregia;
L’angel s’invola da le sue plance
Del mirto già è purificato.
Ma qual vale ogni poesia o canto
Se voi n’oprate il valor del peccato?
Sì, ne permarrà indelebil il manto.
Non sè l’angoscia ch’io duolo,
O spirto celato, al disdoro t’opponi,
Perché più nel ciel campa che ‘l suolo,
Rendi certo che ‘l desio comun coroni.
E come v’agguaglierete
Al vegger infin ‘l turpe baleno?
E lungamente, sì, rimarrete,
Come ‘l lampo che spezza ‘l sereno,
E perpetuo, internamente, vi rugge;
Per vostr’indol empia e proterva,
Questo desio ancor ci strugge.
Ahi! Misera Italia serva!
Nulla domanda si fa al non degno,
Al qual non posson cure o consigli,
Né d’aguzzar, ratto, l’ingegno
Per barcamenar fuor da’ perigli.
Sensi e virtudi già son caduti,
Per mancar in suso della pietade.
E quelli ch’ora parlan diverran muti,
Consumati dal bieco buio dell’etade.
Da ciò, inviovi questi versi al core
Ed alla pietos’alma accesa;
Inducovi a lustrar lume di tal valore
E sollevovi a ricusar la resa.
Or nunzio che voglio io
Spettar il mio turno la madre adorando,
E con quest’intendo ‘l dol mio
Di svelar un mondo che va cangiando.
Cresca, in voi, che leggete rime sparse
Sovra la vigesma ch’io v’arreco,
Se mai nel sogno donna m’apparse
E ven prega di diffonderne l’eco.
Non di lieto, e bestemmia
All’orecchio par dir questa malsorte,
Che del popol fa vendemmia,
E reca i miser, irti, fin alla morte.
Sì, io mesco d’opra il canto mio,
Tingendo di virtute l’ermi marmi,
Dell’inclito verso etrusco fruscio
Richiaman la ragion alle sue armi.
Che sia d’uman fattura in primo,
O di man d’uno scellerato,
Per quel ch’io doglio e ch’esprimo,
Cadrà, inerte, nel fosso del peccato.
Ma non fosti di certo tu,
O padre della nostrana lingua natia,
Per l’era che ‘l tuo tempo fu,
Spirto purgato ed anima pia.
Per quel ch’io posso gnoscer ora,
Dico che ‘l tuo spirto si rallegri,
Insignito auro t’è conscio ancora,
Fra quei figli ch’adesso son tal egri,
Poi ché l’iniquo abito molti abbiglia
Di scempio ha l’impingue vergogna,
L’animo in cor d’altrui s’esiglia,
E sempre più, distrutto, s’agogna.
Or veggi, padre, questa terra meschina,
Accorata da tal miseria e povertà,
Non più d’una volta Ellenica reina
Ma devastata dalla sua stessa casualità.
O patria, ch’ora cadesti e s’unqua cadrai,
S’ancor può crescer, cresca, questa sciaura;
Piangan i figli tuoi pei lor guai
E cada tutta la stirpe nella selva oscura.
Cogitoti beato, o sommo, che il fato
Non t’ha portato a soffrir tal orror truce;
Che mai hai veduto l’italio terren dato
Nelle mani d’un fero e crudel duce.
E già ruinan cittade e campagne,
Tratte l’opre al flagello profano;
Non importa de’ preci e lagne,
Ch’ove inducon, colpiscon di mano.
Non puoi da l’alpe trarre i carri
E schiavitude nemmen puotesi impedire,
Non de’ tanti scherni e molti sgarri
Udisti tu, al domani ancor d’avvenire.
Non l’acerbo regno, non le grida
E ‘l soffrir per proprie pene;
E nemmen l’odio che s’annida,
Frangendosi sovra il suon delle catene.
Chi non duolsi? e perché cotanto dolore?
Qual lasciammo ‘l lavor suo intatto?
Or di viver nel perpetuo terrore,
Paga il conto di tal atroce misfatto.
Perché fatti fummo per il tempo reo?
Qual scherzo giocasti, acido fato?
Perché addolorar di tutti il vitreo
Per viver questa realtà di peccato?
A vegger la nostra patria in tal vestito
Come ancella e schiava bastonata,
Di man d’altrui che punta ‘l dito
E l’Italia mia cade, omai sfiancata.
Or chieggioti di tutto ciò cagione:
Quel ch’al cor m’ha solcato una duna,
Perché s’è il dono mio la ragione,
Allor non son già morto per tua fortuna.
Ma della picca non urta la roncola arsa,
In ver di mal far è già sol l’atto,
Ché dell’amor di patria non v’è comparsa,
Vergogna e ruina dopo il gran patto.
Ma non rimpiango voi, o italiani,
Che nostra patria vi fè figliuoi,
Piuttost’io piango sugl’atti vani
Contro l’Italia e i tiranni suoi.
O padre, se ‘l degno non t’è mancato,
Diverso se’ or da ch’eri in terra,
Non più sommo illustre, ma dimenticato
In una picciol chiesetta in Romagna terra.
Ahi, anime fere! e squallor son le piagge
Degl’uomini illustri, or sassi nel suolo
E succubi di progenie sì selvagge
N’intenti d’ammirar lo scritto nel garzuolo,
Ma d’ignorar virtute e conoscenza!
Lor avi per non porsi in ginocchio perirono,
Ma or son sol seme di lor demenza,
Poi ché sciupan della vita che vivono.
E si vestean, l’antichi, di stracci depressi
Di macerie pregavan l’alto fattore,
Fin ché si salvasser ne l’ombra de’ cipressi
E svanisse, nel buio, ogni lor dolore.
Ei dicean: che’l mare conclude ‘l piatto
E nubi e tempeste son segno del vizio.
Ch’a quel che non arriva al suso tatto
Non fosse pace di un novo inizio.
Aurora nova nel boreal deserto
E pasciar di gnoscenza la cupa selva,
D’una luna ch’al non giro non par certo
Un novello allegorico saggio per la belva.
Non aita la brava gente e la provvidenza,
Che l’anello di Saturno corre orario,
Mai palesa chiar sua magneficenza
Ed il giudicato, a’ più, è sommario.
Qual menzogna, de la bell’età che sorride
E da tua cultura, o padre, or rimoti,
Moriam per gaudio di chi c’uccide,
E di rispettar mai fanno lor propri voti.
Sempre, or dunque, il nome de’ vili
A quello de’ prodi verrà equiparato,
Pel burattin che non spezza suoi fili,
Nulla d’onor nel mondo sarà perdonato.
Non chieggio grandi virtute, ove v’erro,
E nemmen l’etterna immortalità,
Ma sol voglio che si plachi il ferro
E ch’ogni d’uno sedi propria voracità.
In seno alla vostra immensa pietade,
Posate, misericordioso, guardo a’ figli,
Ch’han perso lor via in lor viltade,
E non degni son di nom cui t’assomigli.
Perdona, o sommo, se tal fango è gettato
Sovra le memorie e reliquie d’Italia.
Or ben l’invettiva tua, pio, hai placato
Fe’ simil per lor che’l vizio l’ammalia!
Volgi il guardo verso nostro miser viso,
Tu, o padre, del gran dono oratorio.
Che, in grazia tua, solcasti fin il paradiso!
E giungesti la punta del monte purgatorio.
Cima se’ tu per la molti speranza,
Antica lastra d’italica gloria,
Ch’ozio l’intelletto può esser vicarianza
Dell’antica stirpe e della nova vittoria!
Pel cantato di mensa, appellasti convivio,
Culture a’ miser e disperti giungeranno
Ed a lor sarà concesso di passar ‘l bivio,
E ne’ prati della sapienza pasceranno.
Qual lascito senza te, o grande?
Qual ricordo dell’italia verba?
Un gorgo acqueo in desolate lande,
Senza speme che’l cor gentil si serba.
Poi che sovra le gesta del patrio nido,
O che permane il natio calore,
Ogni d’un ch’agisce incauto ed infido
Di larve beate de’ silenzi d’antico errore.
Qual manca or, di lagna, il compiuto?
Qual di venerar il ricordo d’ei?
La vita strappasi moribonda in fiuto,
E constringeci a pugnar contro di lei.
Regnava la pace d’un tempo, e a’ colli
Ascendea di ramo l’aprico raggio,
Di colpe ignari e lugubri folli,
Nemo parir d’un veglio e saggio.
Voi, dall’etra d’infero mugghiante,
Del nubiferio giogo iniquo germe,
Giusto e forte vegge l’istante,
Radica la zolla, coleroso, ‘l verme.
O voi, de’ dolosi figli ‘l canto,
Le macere cure s’alza, e guerra
Dell’elmo mirteo fan buon vanto,
Fasti dell’Erebo, sorto in terra.
Nasca passion nel core, tutte sparte
Nostre laure corone di buia vorago,
T’assembri medesmo in qualsivoglia parte,
Ove spurga la tua linea imago.
Dimmi, o padre, d’Italia ardore,
Fulgido ingegno ch’ogn’altra gloria vinse,
Ver ch’omai è morto tutto ‘l suo l’amore?
Quella fiamma che t’accese, e ‘l cor spinse,
Or è tutta sopita e, definita, spenta?
Grido antico, or, ragiona; altro può che dire
Se la bell’opra l’umano cor, ancor, paventa,
Non d’uno scritto insito a poltrire.
Se maraviglia coglie, tosto, lo bel sgarro,
Col tremor ch’affiora a fior di pelle;
Sì, la rota che move il ligneo carro,
D’amor che move ‘l sole e l’altre stelle.
In etterno a perir? o gnosceremo nostro scorno
Oltre ‘l solco del suo confine?
Canterò, sì ch’io viva, clamando intorno,
A volger l’avi il guardo, ed alle ruine;
Ed i simulacri, i marmi e i templi,
Pensate ben, che di terra vi premi,
Non può ricordo coprir luce d’esempli,
Tal aurei son di culto l’insiemi!
Si convien a questa benigna usanza,
De’ grandi maestri milita scola,
Non di codardi, ma d’eruditi è stanza.
Or io, infin, vi voglio richiamare:
Se queste mie parole non son vane,
Possa il sol tornar ad albeggiare
E possa risplender sulle sciaure umane.