• mercoledì , 24 Aprile 2024

Il maestro di Porto Empedocle

di Tommaso Laurora

Andrea Camilleri si è spento il 17 luglio scorso.

Soprannominato da tutti “il papà di Montalbano”, il maestro di Porto Empedocle aveva, come il grande Gabriel Garcia Marquez, inventato un vero e proprio mondo, un paese e una lingua per raccontare la sua amata Sicilia.

Grazie ai suoi testi ha cambiato il corso della letteratura italiana, parlando della sua terra e delle problematiche presenti in essa. Lui che scriveva della mafia senza mai chiamarla per nome, trattando di un’umanità piuttosto squallida con estremo realismo: personaggi furbi, egoisti e calcolatori; di generosi e altruisti se ne vedono ben pochi.

Stile realistico, sì, ma con una vena ironica e paradossale che rappresenta perfettamente l’umanità devota al divertimento e alla critica.

In un’intervista lo scrittore spiega come l’ideale della sua scrittura sia quello di farla diventare un gioco di leggerezza; paragonando la scrittura stessa agli esercizi di un’acrobata che egli compie sempre con il sorriso, senza mostrare la fatica. Infatti se il trapezista mostrasse gli sforzi compiuti per raggiungere quella grazia, di certo lo spettatore non si godrebbe lo spettacolo.

Definire Camilleri semplicemente “scrittore” è, però, riduttivo e alquanto “riddiculu” (come direbbe lui).

Maestro; è la parola che più si addice a Camilleri, che rappresenta quanto fatto in vita dallo scrittore siciliano.

Maestro perché sempre alla ricerca di insegnare e trasmettere qualcosa ai lettori.

Uno dei tanti messaggi che il papà di Montalbano ha costantemente cercato di esplicitare era come la cultura non fosse un concetto elitario: “il sapere chi ce l’ha lo deve seminare, come si fa con il grano. Il sapere non deve essere un èlite”.

Ciò che ha reso Andrea Camilleri un vero punto di riferimento per la letteratura italiana è sicuramente l’uso del “suo” dialetto. Una questione “di cuore e di testa”: così Andrea Camilleri definiva il dialetto.

Vero problema per i traduttori, il vocabolario “camilleriano” è costituito da una vastità di termini, alcuni addirittura unici o usati con significati diversi da quelli originali. Così una parola come “scatàscio”, muta di significato da “guaio” a “gran fracasso”, seguendo la musicalità delle lettere piuttosto che la propria etimologia.

Di molte parole quali “calatina” o “erbaspada”, invece, rimane ignota e inspiegabile la provenienza. Inoltre il dialetto del maestro di Porto Empedocle è anche costituito da false parole siciliane, che in realtà, non sono altro se non arcaismi della lingua italiana ormai desueti. Nel fare ciò, Camilleri veste i panni del filologo, il quale va alla ricerca del termine più raffinato e in disuso, per far sì che possa tornare ad essere utilizzato. La cosiddetta “lectio difficilior”.

Altro aspetto importante del linguaggio è il plurilinguismo creato dallo scrittore, il quale fa convivere insieme più parlate creandone una nuova. Camilleri, infatti, combina tra loro palermitano, siciliano orientale e messinese formando quindi parole che non solo hanno un significato ma soprattutto una storia.

“Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto. A me con il dialetto, con la lingua del cuore, che non è soltanto del cuore ma qualcosa di ancora più complesso, succede una cosa appassionante. Lo dico da persona che scrive. Mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana. Non è solo una questione di cuore, è anche di testa. Testa e cuore.”

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