• martedì , 19 Marzo 2024

La nuova muraglia

di Tommaso Laurora

In secondo piano, sovrastata dagli incessanti aggiornamenti riguardanti il covid-19, appare la notizia di una situazione sempre più grave nell’isola di Hong Kong.

Proteste senza sosta, scontri violenti tra i dimostranti e la polizia locale: si tratta ormai di una vera e propria guerriglia che non fa intravedere spiragli per un ritorno alla normalità.

Per capire realmente cosa sta accadendo bisogna risalire al 1984. Hong Kong era colonia britannica e in quell’anno Cina e Regno Unito firmarono una dichiarazione che prevedeva che il 1 luglio 1997 la città sarebbe stata restituita alla Cina. Nell’accordo si stabiliva anche che per 50 anni (fino al 2047) Hong Kong avrebbe mantenuto una autonomia nei confronti del governo cinese, proclamandosi regione speciale.

Per anni la Cina si è impegnata nel rispettare l’accordo, salvo poi iniziare ad avanzare tentativi per accrescere il suo potere sulla regione.

In contrasto a ciò, si scatenarono i primi sollevamenti popolari. Sei anni fa, nel 2014, ci fu la “rivolta degli ombrelli” contro il governo cinese, il quale si era proposto di riformare il sistema elettorale di Hong Kong lasciando scegliere al Comitato del popolo 3 candidati per la carica di Capo esecutivo. Il vincitore sarebbe poi dovuto essere approvato dal governo centrale.

Le proteste del 2019 furono invece causate da un emendamento alla legge sull’estradizione. Con l’approvazione del Parlamento, i cittadini accusati di aver commesso crimini gravi avrebbero potuto essere processati nella Cina continentale. Questo provvedimento va contro le leggi sull’estradizione poiché Hong Kong ha stipulato accordi bilaterali con 20 paesi, tra i quali però non è compresa la Cina.

L’episodio dal quale parte l’idea dell’emendamento risale al 2018 e riguarda l’accusa di omicidio della propria compagna da parte di un ragazzo di Hong Kong a Taiwan. Quest’ultima città, non facente parte dei 20 paesi, non ha potuto richiedere l’estradizione. Proprio per questo motivo è nata la proposta di revisione della legge.

Studiando a fondo il provvedimento ci si accorge però, che la sua approvazione avrebbe decisamente incrementato l’influenza cinese sulla legislazione di Hong Kong. I vari sollevamenti popolari, che hanno spinto la governatrice ad annullare l’emendamento, sono poi sfociati in una richiesta di maggiore democrazia.

Il simbolo e centro della rivolta era il Politecnico della città, all’interno del quale si erano barricati i protestanti impegnati nella guerriglia con la polizia.

Le condizioni, diventate precarie a causa della mancanza di cibo all’interno del centro universitario e della repressione violenta attuata dalla polizia cinese che circondava l’edificio, avevano poi costretto alla resa i protestanti.

L’episodio più recente risale invece al 24 maggio, che ha segnato l’inizio di una rivolta indignata contro la Cina ma più in particolare contro una legge.

La legge sulla sicurezza emanata dal Congresso nazionale che gli inglesi la definirebbero il “tip of the iceberg” di un piano cinese per il controllo di Hong Kong. Questo provvedimento servirebbe a proibire eventuali sovversioni o movimenti secessionisti ma soprattutto permetterebbe al governo Cinese di istituire enti di sicurezza all’interno della regione.

La legge verrebbe inoltre inserita in una sorta di Costituzione (Basic Law) scavalcando così il Consiglio di Hong Kong. L’intenzione del governo è chiara: fagocitare gradualmente le autonomie di Hong Kong tramite provvedimenti e leggi, fino ad assoggettare completamente il territorio, inglobandolo nel sistema cinese.

La comunità internazionale non sembra particolarmente sensibile e intenzionata ad intervenire anche se sembra ormai imminente il pericolo di una nuova “Tienanmen” con ripercussioni non solo umanitarie ma anche economiche.

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