• martedì , 19 Marzo 2024

La terzina dantesca

La terzina dantesca è ciò che di più perfetto l’uomo creò da quando esiste. Tentiamo di capire perché. Quando si studia la Divina Commedia, si dà per scontata la formula poetica della terzina, quasi non vi si presta attenzione. Eppure la terzina ha un significato profondissimo, che va indagato. Innanzitutto esploriamo le sue origini. Per quanto Dante sia IL poeta della terzina, questo particolare strumento poetico preesisteva a Dante. Lo troviamo già nei sonetti di Cavalcanti, per dirne una. Infatti è proprio dal sonetto che Dante estrae la terzina: dallo schema formato da due quartine e due terzine, l’Alighieri ritaglia la terzina,e la mette al centro della sua opera più grande, ovvero la Commedia.

Com’è fatta una terzina dantesca? I poeti che utilizzavano la terzina precedentemente non avevano uno schema fisso con cui adoperarla, anzi spesso lo cambiavano e giocavano con la sua mutevolezza. Le due terzine finali di un sonetto quindi non avevano uno schema rimico preciso, ma potevano cambiare d’aspetto ogni qual volta si voleva. Ad esempio nel sonetto “Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira” di Cavalcanti, le due terzine finali hanno lo schema ABC-CBA. Questo finale è dotato di grande sonorità, in quanto, finito l’ultimo verso della prima terzina, il verso successivo comincia con la stessa rima: si crea una rima baciata insomma, che come al solito allieta l’orecchio del lettore. Ma prendendo altri sonetti lo schema non è uguale: si può trovare ad esempio un ABC-ABC, o un ABA-BAB. Non c’era una regola precisa insomma. Dante invece crea una cosa nuova ed è la cosa più perfetta che esista al mondo. La terzina dantesca è composta sullo schema ABA BCB CDC DED e così via.

Notiamo quindi che il nucleo della terzina è formato da tre versi, composti da due che rimano in rima baciata e uno spurio, che non rima con nulla all’interno del nucleo dei tre versi. La rima baciata di A(B)A è la soddisfazione del lettore. Una rima baciata son due violini che suonano in perfetta armonia musicale. E poi c’è quel verso spurio. A cosa serve? Serve per creare una nuova terzina, infatti è quel verso spurio centrale che sarà la nuova rima baciata della nuova terzina. Facciamo un esempio. 

“Nel mezzo del cammin di nostra vita A

mi ritrovai per una selva oscura B

ché la diritta via era smarrita. A

Ahi quanto a dir qual’era è cosa dura B 

esta selva selvaggia e aspra e forte C

che nel pensier rinova la paura.”  B

Questo è ovviamente l’incipit del poema, noto a tutti e quindi semplice come esempio. Come vedete quell’oscura, pur non facendo rima con nulla nel nucleo della prima terzina (ABA), crea la terzina successiva (BCB). Perciò possiamo dire che ogni terzina (ovvero il nucleo di tre versi) è chiusa ed aperta assieme: è finita ed infinita assieme. Finita perchè trova compimento nella sua struttura a tre versi, ed infinita perché già in quella struttura trova vita una nuova terzina. E questo riciclo non finisce mai. Il gioco va avanti, e non si ferma più, infatti il verso centrale, che crea la terzina successiva, è sempre intercambiabile, e quindi, è sempre generatore di un nuovo nucleo poetico. Perché allora Dante usa la terzina? Perché rappresenta perfettamente l’essere umano nella sua più intima essenza.

Noi uomini viviamo nella nostra limitatezza: siamo limitati e non abbiamo accesso ad una perfezione ultima che ci completi.  Manca sempre qualcosa, e non la troviamo mai, non potendo trovarla. Questa è una condizione naturale dell’uomo, com’è anche naturale la sua voglia di lambire una perfezione, che egli sa essere irraggiungibile. Insomma noi sappiamo di avere dei limiti ma c’è un istinto dentro di noi che ci vuole più grandi e più vicini alla perfezione. Sentiamo quello che si chiama il “desiderio”. L’uomo è desiderio, nella misura in cui “desiderio” è una costante mancanza di grandezza, bellezza, e perfezione: cose inarrivabili, ma che animano la vita. “Desiderio” deriva dal latino de-sidera, che significa “mancanza delle stelle”. Cosa c’è di più grande, bello, e perfetto delle stelle che tremolano nel nitore notturno?

La terzina rappresenta tutto questo: il suo nucleo è imperfetto e chiuso nella sua limitatezza, ma c’è un cuore (il verso centrale, il centro della vita della terzina) che spinge per qualcosa di più grande. Ed è questo anelito del cuore della terzina a vivificare il poema: è grazie al ricambio di rima in terzina in terzina che l’opera continua. E cosa continua in parallelo? Il viaggio di Dante verso Dio. Dante arriva a Dio nella generazione perpetua di novelle terzine, che si eternano in questo riciclo continuo. Ecco allora qual è il segreto: la creazione. Dante arriva a Dio perché la terzina è, certamente limitata, ma, d’altra parte, ha la possibilità di creare, tra i confini della sua inadeguatezza, qualcosa di nuovo e che a sua volta generi. Questo è l’uomo. Questa è l’umanità. Siamo tutti delle terzine: chiusi tra i nostri bordi, tra i nostri limiti, ma con un cuore aperto, potenzialmente, verso l’eternità. In questo la terzina è la perfezione, è la cosa più perfetta che esista: lei stessa, in quanto tale, racconta l’essenza dell’uomo. Prendiamo esempio dalla terzina allora: per tendere a questo infinito dobbiamo creare, creare sempre, e non distruggere mai.

Questa è la chiave a Dio, alla grandezza, al mistero di questo esistere. Creare. E l’atto creativo più grande è quello della vita che crea altra vita. Il resto che creiamo  è un aiuto alla vita presente e futura, ma far nascere  è un dar vita alla vita: generare qualcosa che viva e crei a sua volta. Un fuoco che crea altre fiamme è più grande di uno che vive solo per mantenersi ardente. Infatti tutto questo atto creativo che l’uomo ha dentro, e che esplicita il nostro desiderio di infinito, è mosso da una ed una cosa sola: l’Amore, come ricorda Dante. Ma comunque questo non deve farci credere di poter toccare l’infinito: c’è sempre un limite per noi uomini. E Dante lo sa, infatti il poema, la scalata a Dio, non finisce con una terzina, bensì con una quartina. Il riciclo continuo di rima in rima potrebbe andare avanti all’infinito, ma Dante infinito non è. Perciò il poema finisce con 

“A l’alta fantasia qui mancò possa A

ma già volgeva il mio disio e il velle B

sì come rota che ugualmente è mossa A

l’Amor che move il sole e l’altre stelle.” B

Ma non arrendiamoci, viviamo veramente la vita d’un uomo, come ci insegna la terzina: nella nostra limitatezza creiamo, per sbarazzarcene, e toccare una volta per tutte il mistero che ci infiamma da dentro. Creiamo quanto più possiamo, e viviamo del vero desiderio, ogni anelito inferiore disprezzando. Per dirla con Ezra Pound “ To be man, not destroyers” (uomini siate e non distruttori). 

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