• giovedì , 25 Aprile 2024

L’Odissea e le sue gemme nascoste

Rileggendo l’Odissea lontano dall’obbligo che impone la scuola, si scopre un libro meraviglioso, intriso di scoperte stupefacenti. Si, perchè, oltre a ciò che dell’Odissea studiamo fra i banchi delle aule, c’è un mondo più grande che si squaderna ad ogni pagina sfogliata. Prendiamo in considerazione un aspetto particolarissimo, che nutrì fortemente la poesia nei secoli successivi e di cui Omero fu importante pioniere: la similitudine. L’Odissea è uno dei primi testi del genere umano, e quindi i suoi artifici poetici sono tra i primi attestati nella letteratura occidentale. Fra questi v’è appunto la similitudine.

Si tratta di una figura retorica grazie alla quale il poeta paragona un elemento ad un secondo elemento, in modo tale che la sua immagine prenda vigore e sia vivificata dal paragone. La similitudine quindi non è solo un abbellimento del verso, ma un vero e proprio strumento conoscitivo. Infatti, quando la mente non capisce, ecco che il fatto lì davanti, tramite il paragone con qualcosa di più comprensibile, acquisisce chiarezza. Per esempio: Dante utilizza moltissime similitudini nel Paradiso, infatti l’ambiente è sconosciuto e incomprensibile per gli uomini, perciò il paragone con qualcosa di più umano rende più facile la comprensione al lettore e a Dante stesso. Un esempio molto simpatico è nel ventiseiesimo del Paradiso, quando Dante spiega che l’involucro di luce di Adamo si muove per esprimere il compiacimento nel vedere Dante utilizzando la metafora di un animale che coperto con un panno si muove per far vedere che vuole liberarsene.

L’Odissea è costellata di queste similitudini, particolarmente efficaci se si riporta il poema al suo contesto orale. Omero (posto che sia esistito; ma anche non fosse esistito, pensiamolo come esempio di aedo del tempo) cantava per un pubblico  ascoltante, e, come un cantante ad un concerto, subito aveva il ritorno emotivo della sua opera. Sapeva come spingere alla commozione, al riso, allo stupore e via dicendo; infatti, non l’avesse saputo, i suoi “spettacoli” non sarebbero stati apprezzati. Perciò, il mitico cantore, decise di utilizzare proprio questi momenti di similitudini per toccare l’animo degli ascoltatori: e tutto ciò possiamo dedurlo dal fatto che sono proprio quei momenti i più quotidiani e quindi più facili per l’identificarsi dell’uditorio nella storia.

Queste similitudini raccontano spaccati di vita vera, sono racconti veri e propri di come vivevano quelle popolazioni antiche, grazie a loro possiamo avere davvero un resoconto di come poteva essere la vita in quegli anni: molto più che nelle gesta di Odisseo, di Achille, o di Aiace. Possiamo quindi definirle delle “gemme”, infatti sono dei momenti di altissima poesia, “quotidiane”, infatti raccontano proprio la vita di tutti i giorni.  Scopriamo tre di queste gemme quotidiane.

La prima si trova nel libro quinto: quando finalmente Odisseo può partire dopo un anno di prigionia presso Calipso (e quindi al diciannovesimo anno di lontananza da Itaca), Poseidone scatena una tempesta che per diciassette giorni fa navigare l’eroe in un mare violento. Al diciottesimo giorno Odisseo intravede una spiaggia, che scopriremo essere l’isola dei Feaci, e Omero descrive questa vista con un paragone mozzafiato. Dice

“Come quando ai figli pare preziosa la vita/ del padre, che giace ammalato soffrendo atroci dolori/ a lungo languendo – un demone cattivo l’invase-/ e dopo tanto agognare gli dei lo sottrassero al male,/ così agognate apparvero ad Odisseo la terra e la selva/ e nuotava bramoso di toccare coi piedi la terra”.

Quindi Odisseo dopo essere stato presso Circe per un anno, e averne passati in tutto 19 (per ora, ne manca ancora uno) lontano da casa, finalmente comincia il suo viaggio verso Itaca; e dopo essere stato travolto da una tempesta vede la prima isola che segnerà il suo ritorno. A questa situazione Omero paragona dei figli a cui pare ancora più preziosa la vita di un padre che giace malato, d’un male sconosciuto, e che, per fortuna, il dio fa risanare. Si tratta di un paragone di un eloquenza disarmante. Chissà quante persone fra l’uditorio avevano esperito la stessa cosa: il loro padre morente di una malattia incurabile e che senza spiegazione guarisce.

Il secondo si trova nel libro ottavo, quando Odisseo, presso i Feaci, sente il racconto della presa di Troia (quindi il racconto dell’impresa che lo tenne lontano anni e anni dalla sua terra) e ne piange. Omero dice

“Queste imprese il cantore famoso cantava, e si struggeva/ Odisseo: il pianto gli bagnava le guance sotto le palpebre./ Come piange una donna, gettatasi sul caro marito/ che cadde davanti alla propria città e alle schiere/ per stornare dalla patria e dai figli il giorno spietato:/ ella, che l’ha visto morire e dibattersi, riversa/ su di lui, singhiozza stridulamente, e i nemici di dietro,/ battendole con le aste la schiena e le spalle,/ la portano schiava, ad avere fatica e miseria;/ le si consumano le guance per la pena straziante;/ così Odisseo spargeva pianto straziante sotto le ciglia.”

Odisseo che piange è paragonato ad una donna che, piangente il marito morto per la patria, è resa schiava e trascinata via dal cadavere del marito defunto dai soldati nemici. Un paragone che certo non è passato inosservato per gli ascoltatori del tempo, per cui la guerra era un fatto vero e reale. Queste similitudini sono importanti perché sprizzano vita vera da ogni poro, da ogni spazio bianco tra una parola e l’altra, da ogni silenzio in cui si gioca la morte d’un verso e la vita d’un altro. Immaginate un paragone così quanto doveva essere sentito da chi ascoltava: persone che ogni estate (era tradizione far guerra solo nella bella stagione) dovevano relazionarsi con l’atrocità della guerra.

L’ultimo paragone che analizziamo si trova nel libro tredicesimo. Ulisse sa che il giorno dopo finalmente i Feaci gli metteranno a disposizione delle navi con cui salpare per Itaca, perciò quando la notte arriva lui sa che al mattino sarà sulla via di casa. Omero dice

“Ma Odisseo/spesso volgeva il capo verso il sole radioso,/ impaziente che tramontasse: era smanioso d’andarsene./ Come quando sospira la cena un uomo, a cui tutto il giorno/ due buoi color vino tirano l’aratro compatto per il maggese:/ con sua gioia tramonta la luce del sole, con la gioia/ di andarsene a cena, e andando le ginocchia gli tremano;/ così gradita calò per Odisseo la luce del sole”.

Il calare del sole è gradito da Odisseo perché ha in sé la consapevolezza che, terminata la notte, il mattino seguente sarebbe stato l’inizio dell’agognato ritorno. Proprio così è anche gradito il calare del sole per il contadino, infatti il calar della sera segna la fine del duro lavoro e l’inizio del pasto bramato per tutto il giorno. Un paragone sentitissimo per gli ascoltatori: chissà quanti contadini e braccianti erano lì ad ascoltare l’aedo, e quanti da questo paragone vennero colti nel profondo, perché sapevano quanto duro l’aratro e quanto bella la cena fumante.

Queste sono solo alcune delle gemme quotidiane nascoste nell’Odissea; ma leggetela per intero, e altre vi stupiranno il cuore come queste. 

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